Il conto della sentenza della Corte Costituzionale, che ha bocciato le misure taglia stipendi nella pubblica amministrazione e il prelievo dal Tfr potrebbe, essere salatissimo ed arrivare a costare anche 3 miliardi di euro. Anche per questo, secondo quanto risulta a MF-Milano Finanza, il governo è alla ricerca disperata di una soluzione. Che potrebbe essere trovata, secondo indiscrezioni, attraverso un decreto legge apposito o un emendamento alla legge di Stabilità. Se per il caso Tfr la questione contabile è ancora incerta, è invece sicuro che l’esecutivo di Mario Monti dovrà rispettare lo stop della Consulta al contributo di solidarietà sopra i 90 mila euro: un veto che costa 50 milioni e che, secondo i costituzionalisti, non potrà in alcun modo essere aggirato.
Certo, dal punto di vista politico sarà una norma complicata da spiegare agli italiani ma i giudici dell’organo supremo sono stati tassativi: il taglia stipendi è incostituzionale e quindi è difficile che una norma del genere possa essere riproposta. Non solo. Il nodo ora è che ci si trova di fronte a un paradosso giuridico: una norma, del 2010, bocciata e un buco nei conti pubblici ai sensi dell’articolo 81 proprio della Costituzione. Alla soluzione del rompicapo, come confermato ieri a questo giornale, stanno lavorando i tecnici del ministro della Funzione Pubblica,
Filippo Patroni Griffi, e quelli del ministero dell’Economia. Ma, come detto, il governo starebbe cercando il modo anche di mettere una pezza a un altro effetto collaterale della sentenza della Corte Costituzionale, ossia la bocciatura del prelievo del 2,5% sugli stipendi pubblici per il Tfr. Per ora gli unici calcoli circolati sull’impatto della decisione dei giudici supremi, li ha forniti nei giorni scorsi il leader della Cgil Susanna Camusso. Secondo il sindacato, lo Stato dovrà restituire 3,8 miliardi di euro a circa 3,4 milioni di dipendenti. Inoltre, per Camusso «l’effetto sul mancato incasso in termini contributivi per l’ex Inpdap si aggira su una cifra che arriva fino a 2 miliardi di euro annui».
Intanto dal testo definitivo della legge di Stabilità trasmesso ieri alla Camera continuano a emergere sorprese. Come la decisione di prorogare di un altro anno, fino alla fine del 2013, il blocco, nelle Regioni sottoposte ai piani di rientro dal disavanzo sanitario, delle azioni esecutive a carico delle relative aziende sanitarie locali e ospedaliere, e della efficacia dei pignoramenti e delle prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalle medesime regioni. Una decisione duramente criticata dai rappresentanti del mondo imprenditoriale. Durante un convegno organizzato ieri dal Taiis, il Tavolo interassociativo delle imprese di servizi (creditori verso lo Stato per 34 miliardi), Marcello Fiore, rappresentante dell’Angem (le aziende della ristorazione collettiva), ha duramente criticato la decisione del governo.
Fiore ha fatto notare che le Asl sono i debitori più incalliti e che in questo modo si bloccano i pignoramenti in Regioni come il Lazio, al centro degli scandali per la gestione allegra dei fondi pubblici a favore del sistema politico. Durante il convegno, nel quale è stata illustrata una proposta di recepimento della direttiva sui pagamenti predisposta dal Centro Einaudi, le imprese di servizi hanno lamentato «ritardi di pagamento medi pari a 220 giorni». Un dato ben peggiore dei 186 medi stimati per edilizia e forniture di beni. Lo stock di debito arretrato, hanno spiegato, si aggira ormai attorno ai 90 miliardi, di cui oltre 34 dovuti alle sole imprese di servizi, e sta determinando una crisi irreversibile nel settore, colpito anche dai tagli alla spesa sanitaria, a quella scolastica e dei buoni pasto, e pertanto costretto a ridurre progressivamente l’occupazione.
Milano Finanza – 18 ottobre 2012