Paolo Baroni. Renzi lo aveva annunciato l’estate scorsa presentando assieme al ministro Madia i decreti attuativi della riforma della Pa: «Dopo sette anni di blocco è venuto il momento di sanare un’ingiustizia». Semaforo verde al rinnovo dei contratti di tutto il pubblico impiego, dunque, con l’unico vincolo di «premiare chi lavora».
Ad una settimana dal varo delle legge di Bilancio i tecnici stanno mettendo a punto le ultime cifre e l’ipotesi che circola, al momento, prevede di stanziare per i rinnovi di tutto il comparto pubblico, all’incirca 600 milioni di euro che si andrebbero ad aggiungere ai 300 già coperti dalla precedente legge di bilancio. In totale sul piatto il governo metterebbe insomma 900 milioni, che sommati alla quota che spetta al sistema delle autonomie locali (Regioni e Comuni) porterebbe lo stanziamento complessivo a quota 1,5 miliardi. Insomma, non siamo ancora ai 7 miliardi in tre anni invocati nelle scorse settimane dai sindacati di settore, ma ci si comincia da avvicinare.
Sindacati divisi
«Se fosse confermata la cifra di soli 900 milioni disponibili nel triennio per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego, vorrebbe dire che il presidente Renzi ad agosto ha preso impegni con i lavoratori pubblici che dimostra di non mantenere», lamenta il segretario generale della Fp Cgil Serena Sorrentino che si dice pronta a valutare eventuali iniziative da intraprendere assieme alle altre sigle nel caso il governo confermasse questi numeri. «Dopo tutti questi anni e le tante esigenze di innovazione – spiega – sarebbe un brutto segnale di prosecuzione della linea di svalorizzazione del lavoro pubblico». Diverso invece il giudizio del numero uno della Funzione pubblica Cisl, Giovanni Faverin, che parla di un «primo passo, che può consentire di iniziare a ragionare sui rinnovi». «Ovviamente queste risorse ancora non sono sufficienti – aggiunge – a meno che le autonomie locali non si facciano carico dei rinnovi dei loro 600mila dipendenti e le Regioni a loro volta finanzino da sole il rinnovo della Sanità che occupa altre 600mila persone».
Tolto di mezzo questo “fardello”, e tenuto conto che circa 800mila lavoratori l’anno passato hanno già ricevuto il bonus da 80 euro (e quindi per questi «si tratterebbe essenzialmente di confermare questa somma e poco altro» spiega Faverin), le distanze tra offerta e richiesta si avvicinerebbero molto. Al punto che non sarebbe impossibile ipotizzare una eventuale prima tranche di aumenti nell’ordine dei 50 euro lordi al mese da incrementare poi nel 2018-2019.
Il nodo delle regole
La partita richiederà però ancora tempo per andare in porto, perché i sindacati vogliono anche cambiare il modello contrattuale che si applica alla Pa. In ballo c’è il passaggio di buona parte della contrattazione verso il secondo livello per poter sfruttare al meglio la leva della produttività. Nei contatti informali di queste settimane tra i sindacati e l’Aran, l’agenzia pubblica delegata a trattare coi sindacati, sarebbe stato messo a punto un primo schema che ridisegna le relazioni sindacali nei quattro macro-comparti in cui è stata suddivisa la Pa (Funzioni centrali, Funzioni locali, Sanità e Scuola) e, soprattutto, punta a riportare nell’ambito della contrattazione temi importanti come premi di produttività, valutazione delle professionalità, mobilità, flessibilità e orario di lavoro.
Per procedere si attende solo l’atto di indirizzo che deve emanare a giorni il ministro Madia. Quindi il confronto potrà entrare nel vivo. In parallelo si discuterà ancora di risorse. Al riguardo fonti di governo non escludono che lo stanziamento per i nuovi contratti della Pa possa aumentare ulteriormente. Una stima emersa nei contatti di queste settimane tra Tesoro e Funzione pubblica indica come obiettivo ideale una cifra che nel 2019 dovrebbe raggiungere quota 2,5 miliardi. Anche in questo caso però l’ultima parola spetta a Padoan.
La Stampa – 9 ottobre 2016