Doveva essere un summit improntato all’ottimismo per discutere sul miglioramento delle condizioni economiche a livello globale e sul futuro del lavoro minacciato dai progressi dell’intelligenza artificiale, sui rischi delle criptovalute e sull’elusione fiscale delle multinazionali. Invece la riunione di due giorni a Buenos Aires dei ministri del Tesoro e dei governatori delle banche centrali del G20, il gruppo delle venti maggiori economie del mondo, è stata ostaggio della svolta protezionistica di Donald Trump.
Fino all’ultimo le altre 19 delegazioni si sono confrontate con Steven Mnuchin, il ministro americano del Tesoro, perché il comunicato finale confermasse gli impegni a mantenere la libertà dei commerci, che lo stesso G20 aveva sottoscritto sei mesi al vertice di Amburgo con il consenso dello stesso Trump. Fino all’ultimo europei e giapponesi hanno fatto di tutto per convincere gli Stati Uniti che l’introduzione di dazi potrebbe scatenare una guerra commerciale a livello planetario, con danni alla ripresa globale: compresi i consumatori americani costretti a pagare prezzi più alti per i prodotti e per le aziende d’oltreatlantico.
E ovviamente c’è anche la questione della web tax, una imposta su profitti delle società hi tech della Silicon Valley, che l’Europa ipotizza di introdurre, non solo come punizione per i dazi trumpiani, ma anche per una questione di giustizia fiscale, vista l’elusione sistematica delle tasse da parte dei colossi informatici.
Ma il bandolo della matassa commerciale non è in Argentina, né a Bruxelles: resta a Washington. Tutto lascia pensare che dopodomani, venerdì, non solo entreranno in vigore i dazi americani del 25 per cento sulle importazioni di acciaio e del 10 per centro sull’alluminio, ma anche che Trump annuncerà dazi punitivi per 60 miliardi di dollari sulle importazioni del “ Made in China” per le presunte violazioni di Pechino delle norme sulla proprietà intellettuale.
Di fronte a una scadenza con conseguenze ancora difficilmente calcolabili, una quarantina di associazioni americane che si occupano di commercio hanno rivolto una petizione alla Casa Bianca chiedendo un rinvio della decisione in attesa di valutarne meglio le conseguenze. E dopo l’esclusione dalle nuove tariffe di Canada e Messico, con cui è in corso una trattativa sul futuro del trattato commerciale Nafta, e poi anche dell’Australia per ragioni politiche, il governo americano sta ricevendo una serie di analoghe richieste di deroga dall’Europa e dai due maggiori alleati asiatici, Giappone e Corea del Sud. “ Siamo in attesa di una completa esclusione a livello europeo”, ha detto a Buenos Aires il ministro francese delle finanze, Bruno Le Maire. Ma per il momento nulla fa pensare che Trump voglia cambiare strada.
Da quando Gary Cohn è andato via dalla Casa Bianca, dov’era capo dei consiglieri economici, e in attesa che venga sostituito dal commentatore televisivo Larry Kudlow, non c’è nessuno nell’entourage di Trump che osi contraddirlo sul suo nuovo approccio protezionistico all’ “ America first again”. E il ruolo di Peter Navarro, l’assistente del presidente sulle questioni commerciali e un paladino dei dazi anti-cinesi, sembra incontrastato.
In questo quadro, la riunione di Buenos Aires del G20 — che è una delle cinque preparatorie, prima dell’incontro di novembre a livello di presidenti e premier — non ha potuto far altro che registrare preoccupazioni e tentativi goffi di mettere qualche bastone nelle ruote del protezionismo ma senza riferimenti a Usa e Cina.
In compenso al G20 si è parlato molto di Italia. In un documento preparato per il vertice l’Ocse ha osservato che le riforme strutturali italiane «iniziano a dare i frutti» e ha invitato il paese a proseguire su questa, intensificando la lotta alla corruzione e all’evasione fiscale.
La Repubblica – 21 marzo 2018