In tempo di dazi occorre fare squadra. Tra agricoltura e industria alimentare, in Italia. E tra Paesi, in Europa. È questo il messaggio che arriva da Parma, capitale della foodland italiana, nei giorni di Cibus Connect — l’evento che negli anni dispari si focalizza sull’innovazione — «vetrina — come spiega il presidente di Fiere di Parma, Gian Domenico Auricchio — per 500 nuovi prodotti alimentari del «made in Italy» con 900 marchi, 700 espositori, 10 mila operatori e buyer, di cui 3 mila dall’estero». Molti dei prodotti italiani d’eccellenza, però, dopo le ultime minacce di Donald Trump, rischiano barriere alle esportazioni nel caso in cui l’amministrazione americana desse corso ai propositi di ulteriori dazi nei confronti dell’Europa. «Siamo preoccupati — sottolinea il presidente di Coldiretti Ettore Prandini — perché ogni volta che c’è attrito tra Usa e Ue si tira in ballo l’agroalimentare. E nel caso specifico tre comparti, come quello dell’olio, dei vini e dei formaggi, in cui gli Stati Uniti hanno investito molto. Le istituzioni facciano squadra e rispondano come Europa. E anche l’industria alimentare e gli agricoltori si muovano insieme: l’alimentare italiano pesa per l’11% sul Pil, se aggiungiamo l’agricoltura arriviamo al 17%.All’estero occorre andare compatti: trovo paradossale che ogni regione si occupi di internazionalizzazione, a «Fruit Logistica» di Berlino erano addirittura presenti le provincie».
Dei rapporti tra industria e agricoltura si è parlato anche nel faccia a faccia tra lo stesso Prandini e Paolo Barilla, vice presidente dell’omonimo gruppo, che si è tenuto alla vigilia di Cibus Connect al Teatro Regio, alla presenza del numero uno di Confindustria Vincenzo Boccia. «Abbiamo iniziato a sottoscrivere accordi di filiera 10 anni fa — ha spiegato Barilla —, sono fondamentali per le imprese che guardano al futuro e vogliono offrire ai consumatori un prodotto buono e sicuro e rispettoso dell’ambiente». «Accordi — gli ha fatto eco Prandini — di media lunga durata che danno sicurezza all’azienda agricola che così può anche innovare».
La parola chiave, quindi, è sistema. Anche per fronteggiare gli eventuali dazi: «Fondamentale sarà trovare un accordo tra Usa e Ue — spiega il presidente dell’Ice, Carlo Maria Ferro — ma le imprese italiane devono fare squadra, come fa la Francia». Non solo per difendersi dai dazi — ai quali, secondo l’eurodeputato Paolo De Castro (del quale oggi è attesa l’ufficializzazione della candidatura alle Europee), la Ue deve rispondere unita, forte dei suoi 500 milioni di consumatori — ma anche dalle etichettature che mettono a rischio il made in Italy. Questo, almeno, è il pensiero di Ivano Vacondio, presidente di Federalimentare, che teme più i semafori all’inglese sulle etichette — quelli che evidenziano il bollino rosso per prodotti come il parmigiano — che i dazi di Trump o la Brexit: «Sui dazi sono ottimista, sia perché penso che non si arrivi a una rottura su un versante così importante sia perché il mercato americano continuerà a essere importante per l’Italia in quanto il prodotto made in Italy è uno status, non viene acquistato per alimentarsi. Invece il discorso dei semafori sulle etichette può farci male. Non si può condannare un prodotto perché contiene zucchero o sale, che possono fare male solo se consumati in misura eccessiva. L’etichettatura fronte-pacco che vogliono adottare in Francia, poi, è ancora più punitiva del semaforo all’inglese. E i francesi vogliono che venga estesa a tutta l’Europa».
Europa che sul versante delle infrastrutture è, però, ancora lontana dall’Italia: servono porti, strade, ferrovie e aeroporti. «Sui porti — sottolinea il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti — siamo 21esimi su 28 e considerando i Paesi che non hanno mare, si fa presto a capire che siamo ultimi. Negli ultimi anni siamo cresciuti in maniera disaggregata, l’export è aumentato ma è mancata una strategia nazionale».
corsera