Maurice Obstefeld, capo economista del Fondo monetario a Washington, guarda i numeri ed è ottimista: le previsioni di crescita del Pil mondiale sono riviste leggermente al rialzo: 3,5% nel 2017, rispetto al 3,4% indicato a gennaio. Poi solleva lo sguardo sullo scenario politico e in particolare a quello che può succedere nella vicina Casa Bianca di Donald Trump. Protezionismo, rischi geo-politici, guerre commerciali e scontri anche militari. Sintesi: «L’economia sta prendendo slancio, potrebbe essere il punto di svolta, ma non possiamo dire con certezza di essere fuori dal guado».
Le tabelle indicano un miglioramento generalizzato delle previsioni rispetto a tre mesi fa. Resta stabile, Trump o non Trump, l’analisi sugli Stati Uniti: confermato l’incremento del 2,3% per il 2017 e del 2,5% per il 2018. Le punte di quest’anno sono in Asia: 6,6% in Cina (più 0,1%); 1,2% in Giappone (più 0,4%). Invariati il più 7,2% e il 7,7% assegnati all’India per il biennio.
Ritocco anche per l’Italia: a gennaio scorso la stima per il 2017 era pari allo 0,7% (ed era stata tagliata dello 0,2%); adesso è allo 0,8%, mentre rimane immutata, sempre allo 0,8%, la proiezione sul 2018. Sono cifre più basse rispetto a quelle presentate dal governo nell’ultimo Def, il Documento economico e finanziario: crescita dell’1,1% nel 2017 e dell’1% nel 2018. Per il Fmi l’Italia «resta nettamente sotto il suo potenziale». Il confronto con la zona euro è impietoso. La media per il 2017 di Eurolandia è l’1,7%, con la Germania all’1,6%, la Francia all’1,4% e la Spagna con un brillante 2,6% (revisione dello 0,3%). Persino la Grecia si è rimessa in moto con il 2,2%. Nell’ottobre scorso, in occasione della sessione autunnale del Fmi, il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, usò un’immagine ferroviaria in un’intervista con la «Cnn»: «Siamo a metà del treno europeo. In due anni arriveremo al vagone di testa». I dati, per il momento, raccontano un’altra storia: anche se le cose andassero come stima l’esecutivo ora guidato da Paolo Gentiloni, l’Italia sarebbe comunque ultima in classifica sia nel 2107 che nel 2018.
Nel complesso l’analisi del capo economista Obstefeld è incoraggiante per gli europeisti: «È vero che ci sono movimenti politici con piattaforme anti-euro. Ma per uscire dalla moneta unica occorrono passi che ci sembrano improbabili. È meglio non esagerare l’impatto a breve termine di queste visioni politiche».
Il Fondo ha dovuto, invece, correggere sostanzialmente l’analisi sul Regno Unito, aumentando di ben mezzo punto percentuale l’aumento del pil 2017: 2%. Gli effetti della Brexit si dovrebbero sentire nel 2018, con un rallentamento della crescita all’1,5%.
Giuseppe Sarcina – IL Corriere della Sera – 19 aprile 2017