Michele Bocci e Antonio Fraschilla, La Repubblica- È la linea di frontiera chiamata al compito gravoso di salvare il sistema ospedaliero dall’arrivo di migliaia di pazienti contagiati dal coronavirus. Sul fronte però, dopo anni di smantellamento della rete dell’assistenza territoriale, ci sono poche truppe sparute.
Mancano medici di famiglia, gli stessi che adesso come stabilito dal Comitato tecnico scientifico (Cts) dovrebbero fare il tampone agli asintomatici, e alcuni sindacati chiedono investimenti prima di accettare di fare i test da coronavirus. I dipartimenti di prevenzione delle aziende sanitarie sono già al collasso e non riescono più a gestire l’emergenza Covid insieme alle attività ordinarie, come l’imminente campagna di vaccinazione. Le Usca, le Unità speciali di continuità assistenziale ideate per aiutare il sistema territoriale, sulla carta dovrebbero essere 1.200 in tutto il Paese, in realtà sono meno della metà. Complessivamente mancano all’appello almeno 20 mila tra medici di famiglia, camici bianchi nelle aziende sanitarie e infermieri del territorio per coprire le piante organiche.
I medici di famiglia
Una presenza fondamentale nel territorio è quella dei medici di famiglia: non a caso il Cts ha proposto di affidare a loro il compito di fare il tampone agli asintomatici. Ma sul fronte di questi professionisti la situazione è critica: «In molte Regioni ne sono rimasti in servizio davvero pochi, a partire proprio dalla Lombardia — dice Silvestro Scotti segretario del sindacato di categoria Fimmg – secondo i nostri calcoli 3 mila medici sono andati in pensione quest’anno, e altri 2 mila ci andranno all’inizio del prossimo». In soldoni su circa 40 mila medici di famiglia ne mancano all’appello 5 mila. «Adesso ci chiedono di fare i tamponi, ma attendiamo ancora che vengano assunti gli infermieri che dovrebbero affiancarci», aggiunge. Nel ddl agosto il governo ha stanziato 10 milioni di euro per assumere infermieri a sostegno dei medici di famiglia, ma le somme non sono state nemmeno ripartite. Il secondo sindacato, prevalente in Lombardia, lo Snami, non vuol sentire parlare di tamponi. «È pura follia — dice Roberto Rossi, responsabile regionale della sigla — I nostri studi non sono adatti a separare i casi sospetti che arrivano per il test dagli altri».
Le Usca al palo
Sono le Unità create durante la prima ondata dell’emergenza per andare a casa dei pazienti a fare tamponi e prestare loro assistenza. Le regioni virtuose, dice Italo Angiolillo, presidente della Società italiana di Igiene preventiva sono «le solite Emilia-Romagna e Toscana, nelle altre il sistema non funziona». In base al programma del governo Conte, per garantire tamponi domiciliari e tracciamento, in Italia si dovrebbe istituire una Usca ogni 50 mila abitanti. «In totale dovrebbero essere 1.200, in realtà ne sono attive meno della metà», continua Angiolillo. Il risultato è che in molte regioni manca l’assistenza domiciliare. Il governo ha stanziato un miliardo per assumere 9.600 infermieri da destinare proprio a distretti sanitari e Usca, ma in pochi sono stati chiamati.
I dipartimenti di prevenzione
Un ruolo fondamentale nella medicina del territorio ce l’hanno i dipartimenti di prevenzione delle Asl. Sono queste strutture che si stanno occupando del tracciamento dei casi di coronavirus. Un’attività che in certe regioni si sta perdendo. Il personale non è in grado di ricostruire i contatti di tutti i nuovi positivi e talvolta chiedono a loro di avvertire amici e parenti. «Senza investimenti il sistema non regge — dice senza giri di parole Angiolillo — secondo i nostri calcoli occorre assumere subito 6 mila persone tra medici e assistenti sanitari».
L’affanno dei drive in
Sono partiti già a marzo in provincia di Bologna, a San Lazzaro e presto si sono allargati prima in Veneto e nelle Marche e poi nel resto del Paese. I drive in o i drive through sono ormai oltre 300 in tutta Italia. Molto spesso, soprattutto nelle città, è facile vedere lunghe file nelle corsie che conducono alle postazioni dove si fa il tampone. Ma i drive in attivi sono troppo pochi per rispondere a tutte le richieste, e mancano anche i laboratori per fare le analisi e dare risultati in tempi celeri. Il Lazio, una delle Regioni dove la domanda ai drive in sta crescendo di più, ne ha 38 e ancora fatica ad abbattere le code, malgrado il rinforzo del sistema.
Gli alberghi sanitari
È la strada scelta dalla Toscana, che ne ha aperti 15, per tenere in isolamento le persone che vivono in situazioni dove non è assicurato il distanziamento. Anche in questo caso si tratta di un’esperienza replicata poi in tante altre Regioni. Far funzionare gli alberghi sanitari, attivati anche in ex ospedali o in altre strutture pubbliche, vuol dire anche liberare gli ospedali da pazienti non gravi. Ma anche in questo caso servono investimenti per il personale.