Per chi li organizza un business da 215 milioni di euro: chi sono, cosa fanno. Cinquecento società venete, che li realizzano con fondi pubblici. Alcune sono semplici numeri di telefono
VENEZIA – Non c’è nulla di più federale della formazione professionale. Nessun governo si è mai occupato di mettere nero su bianco una legge che preveda corsi di formazione per chi è in cerca di lavoro o per chi lo ha perso e, di fatto, tutto il pacchetto della preparazione e delle competenze professionali è stato nel corso degli anni delegato al rapporto diretto tra le aziende e le Regioni. E questo purtroppo non ha semplificato le cose. La situazione dei corsi professionali nel Veneto – una delle regioni più avanzate nel settore della formazione, seconda solo a Emilia Romagna e Lombardia – è talmente confusa che non è possibile stabilire con certezza quante persone abbiano avuto accesso alla formazione e quanti abbiano davvero completato i corsi nel 2011. Secondo i dati di Confindustria e Confartigianato si tratta di circa settemila persone di cui solo un terzo ha completato le ore di lezione previste. Resta il fatto che le società che si sono tuffate nel mondo della formazione sono quasi cinquecento e molte di queste esistono solo come numeri di telefono su un lungo elenco degli enti accreditati presso la Regione Veneto. Mettendo da parte le associazioni di categoria, gli enti locali e i sindacati, dunque nella nostra regione la maggior parte dei corsi sono tenuti da piccole società che nella pratica quotidiana non hanno l’obbligo di rispondere a nessuna verifica né sulla qualità dei corsi né sull’effettivo svolgimento delle lezioni.
Fatto grave se si considera che la maggior parte dei fondi a cui queste società di formazione accedono – i corsi a catalogo, cioè quelli pagati direttamente dai privati o dalle aziende sono una minoranza – sono puramente pubblici: europei, statali o regionali. Una massa da 215 milioni di euro – poco meno del 10% di quello che si spende in tutto il paese – che viene distribuita a imprenditori, professionisti e consulenti che dispensano pacchetti di lezioni da 10 o 20 ore. «Il problema è che finora ci siamo concentrati sui diritti dei lavoratori e non sulle competenze di chi entra nel mondo del lavoro», spiega il giuslavorista Romano Benini. A sentire l’esperto, la formazione per chi si affaccia al mondo del lavoro finisce per cozzare con il sistema tradizionale del welfare italiano che preferisce concentrare la maggior parte delle risorse per la cassaintegrazione e per la mobilità a tutela di chi il lavoro lo perde piuttosto che per chi sta per iniziare. E in effetti la tutela per chi resta senza lavoro è quasi esclusivamente di tipo economico visto che non prevede – almeno fino a quando non ci sarà una legge sulla flexecurity – alcuna formazione obbligatoria. «Va detto però che il Veneto è una delle poche aree del paese dove la crisi ha avuto meno impatto sul mondo del lavoro, segno che c’è un alto livello professionale all’interno delle aziende», conclude Benini. Ma se chi è già dentro un’azienda veneta può vantare un alto livello di professionalità, non è così per chi sta cercando di entrare. «Spesso le nuove generazioni hanno competenze poco spendibili in ambito lavorativo», sottolinea il direttore di Confindustria Veneto Gianpaolo Pedron. Per quanto la stessa Confindustria abbia creato in partnership con l’università di Padova 21 borse di studio da mille euro al mese per altrettanti dottorati di ricerca operativi – cioè più pratici che teorici, con un discreto monte ore in azienda – i punti di contatto tra la formazione scolastica e le aziende del territorio sono ancora pochi. «Dovremmo ricorrere più intensamente al contratto di apprendistato per i neodiplomati e neolaureati», aggiunge Pedron.
Il problema però è non è di facile soluzione: i neodottori vedono l’apprendistato come una sistemazione da «garzoni di bottega» e spesso lo rifiutano mentre le aziende usano questa tipologia contrattuale per scaricare tasse o ottenere agevolazioni fiscali e non formano niente e nessuno. Non solo. La riforma dell’apprendistato che permetterebbe di stabilire nero su bianco le regole con cui si deve svolgere la formazione all’interno delle aziende per i neoassunti arriverà solo il 25 aprile prossimo – se non salta l’intesa tra governo e sindacati – con il rischio che la disciplina nazionale si scontri con le diverse politiche nazionali rallentando ulteriormente la razionalizzazione del settore. E allora ecco che ricompaiono nuovamente i corsi di formazione del Fondo Sociale Europeo organizzati dalle associazioni di industriali, dalle categorie e dai sindacati, che in questo settore sono uno dei principali colossi. «Negli ultimi anni a causa della crisi c’è stato un calo dei partecipanti ai nostri corsi – spiega Nicola Zanon, segretario di Api Industria Servizi -ma continuano a presentarsi diplomati e laureati che hanno già un lavoro e vogliono fare carriera o mettersi in proprio in qualche settore». E’ il caso di chi ha seguito corsi sulla gestione di rifiuti o sulle normative in materia di energia rinnovabile. A fine corso la loro posizione all’interno dell’azienda era già aumentata di qualche gradino.
Ma se i risultati per chi già ha un lavoro e ne cerca uno migliore sono sbalorditivi – alcuni corsi di formazione e alcuni master universitari vedono scatti di carriera per il 100% degli studenti – chi ha appena terminato il ciclo di studi e cerca per la prima volta lavoro è tendenzialmente restio anche solo a spendere un migliaio di euro per fare un corso da 60 o 80 ore che porta al successo mediamente poco più del 30% degli iscritti. «Il 25% dei giovani laureati o diplomati che frequenta i corsi organizzati da noi trova lavoro subito dopo la fine delle lezioni – interviene Paola Mainardi, ad di Sive Formazione di Confindustria Venezia – il 47% invece lo trova dopo 12 mesi». «Il corso per operatori dei processi di rigassificazione ha visto l’assunzione del 60% dei frequentanti », aggiunge Andrea Pascucci del Consorzio industriale formazione di Unindustria Rovigo. Certo, nella patria del rigassificatore e delle centrali elettriche si tratta di una figura professionale richiesta, ma nel resto della Regione che competenze servono? «I corsi di formazione devono prevedere un approfondito studio preliminare del profilo che in quel momento interessa alle imprese dell’area altrimenti non sono efficaci», rincara la dose Mainardi.
Se la lunghezza dei corsi universitari rischia di creare dei professionisti che andavano bene al momento dell’iscrizione ma che sono già fuori mercato al momento del diploma, questo non è il caso dei corsi di formazione che per la loro brevità rispondono immediatamente alle esigenze delle imprese. Resta il fatto che la spesa pubblica per i corsi di formazione è ancora tra le più basse in Europa (le più alte sono quelle della Spagna e della Germania) e che non fa parte della cultura dei lavoratori veneti affrontare autonomamente corsi di qualsiasi tipo mentre si sta cercando lavoro o mentre si lavora. I corsi di formazione infatti sono ancora visti con diffidenza dalle imprese (che non mandano i loro lavoratori a formarsi salvo per i corsi obbligatori sulla sicurezza) e da quelli che sono in cerca di lavoro che leggono il tornare sui banchi di scuola come una sconfitta. «Purtroppo la formazione viene ancora vista come una perdita di tempo – conclude la direttrice di Forema, l’ente di formazione di Confindustria Padova Cristina Ghiringhello – eppure deve essere chiaro che il mercato sta cambiando e che richiede formazione continua dei lavoratori. Rendiamoci conto che nelle multinazionali ormai senza una laurea non si fa nemmeno uno stage…».
Alessio Antonini – Corriere del Veneto – 11 febbraio 2012