di Giovanni Caprara.Un’immagine impressionante, una sequenza di corpi neri e lucidi esposti al sole: almeno 400 globicefali scaraventati sulla spiaggia di Farewell Spit in Nuova Zelanda dalla forza del mare. Oltre trecento sono morti e per i sopravvissuti c’è una corsa contro il tempo da parte dei volontari impegnati nel riportarli tra le acque. Il luogo è noto per altri disastrosi spiaggiamenti.
Sembra quasi impossibile che animali tanto corposi, lunghi più di otto metri, possano essere vittime di simili eventi. Le cause del fenomeno sono avvolte dall’incertezza. «Si avanzano alcune spiegazioni, però la ragione precisa non è mai stata individuata e le ricerche in corso per trovare risposte sono numerose», commenta Sergio Guccione, biologo marino del Centro Studi Cetacei che dal 1985 sorveglia le coste italiane per intervenire proprio nelle emergenze degli spiaggiamenti.
I globicefali ( Globicephala melas ) sono dei delfinidi, più simili ai delfini che alle balene. Predatori, vivono fino a 40 anni e per cercare le loro prede raggiungono profondità anche di seicento metri dove, nel buio, riescono a rilevarle grazie al vistoso «sonar» che caratterizza la fronte prominente: una zona ricca di grasso funzionante da lente acustica amplificatrice del segnale. «Può succedere che il capobranco si ammali, perda la capacità di orientarsi e il gruppo lo segua verso l’infelice destino — spiega Guccione —. Ma in questo caso erano in troppi. L’ipotesi non soddisfa». Ci possono essere cause naturali come l’emissione di onde generate da un sisma (non registrato nel caso della Nuova Zelanda), oppure inquinamenti generati da perforazioni marine. Si sono prese in considerazione pure le caratteristiche dei fondali. «Si cerca di capire se la natura geologica costituita da materiali fonoassorbenti non restituisca l’identità dell’ambiente attraversato» spiega il biologo.
I globicefali vivono anche nelle acque intorno alla nostra Penisola. Preferiscono fondali di media profondità ed è più facile incontrali nel Mar Ionio, lungo le coste calabresi, o nel Mar Tirreno. «Alla fine il punto debole — aggiunge Marino Vacchi dell’Istituto scienze marine del Cnr — sembra essere la socialità di questi animali, il loro modo di vivere, gli stretti rapporti che mantengono fino, purtroppo, alle estreme conseguenze negative».
Il Corriere della Sera – 12 febbraio 2017