Giuliano Foschini e Fabio Tonacci, Repubblica. Un anno fa il coronavirus ha sollevato il coperchio di una pentola rimasta troppo a lungo chiusa. Mentre la curva epidemiologica schizzava verso l’alto, l’Italia ha scoperto di avere un “parco” rianimazioni scarso. Si contavano solo 5.090 posti in tutto il Paese tra pubblico e privato, con un rapporto di 12 a 1 a “vantaggio” del primo: dopo tagli e riforme sanitarie improntate alla privatizzazione, agli ospedali è rimasto l’onere dei costosi reparti di terapia intensiva, mentre le cliniche si sono accaparrati quelli più remunerativi di chirurgia, oncologia, cardiologia. «Mai più», si è detto allora. «Potenzieremo », «aumenteremo i letti», «riorganizzeremo». Ebbene, nella settimana in cui probabilmente toccheremo il picco massimo di saturazione da quando è cominciata la pandemia, quelle promesse suonano come parole al vento.
Mille ventilatori dimenticati
La soglia del 30% non era stata fissata a caso. Superarla significa, né più né meno, essere costretti a scegliere quali pazienti curare. Durante il mandato di Arcuri, la struttura commissariale ha acquistato alcune migliaia di ventilatori polmonari. Li ha consegnati alle Regioni, portando la capacità delle rianimazioni agli attuali 9.059 posti letto. In magazzino, le cui chiavi ora sono nelle mani del neo commissario Figliuolo, giacciono abbandonati 1.400 ventilatori: di questi 1.135 sono adatti alla terapia intensiva, 125 sono per le sub-intensive, 140 sono stati donati e ne va verificata la compatibilità. Sono lì a prendere la polvere perché le Regioni stesse, pur in grande affanno, non li vogliono: non hanno personale specializzato sufficiente a farli funzionare. In Piemonte è accaduto anche di peggio: ne hanno richiesti 300, gli sono stati consegnati e sono rimasti lo stesso in deposito. Gli esperti dell’Unità di crisi torinese sostengono che almeno 50 apparecchi, prodotti da un’azienda di Bologna, siano difettosi.
Non ci sono i soldi per il piano B
C’era un piano B, in realtà. Si chiamava “Piano di riorganizzazione della rete ospedaliera nazionale” e serviva per rafforzare tutti quei ricoveri che erano in sofferenza. Nella lista dei progetti presentati ce ne sono molti che riguardano le rianimazioni. Il piano è stato varato in “somma urgenza” da Arcuri nell’estate scorsa ma solo a ottobre è partito il bando di gara. A dicembre tutti i 21 lotti geografici sono stati assegnati per una cifra complessiva di 713,2 milioni di euro ma per vederli realizzati passeranno anni. Per due motivi. Il primo: l’accordo quadro è quadriennale, quindi i lavori potranno essere finiti anche nel 2025, quando il Covid — si spera — sarà un ricordo. Il secondo: a oggi nessun cantiere, o quasi, è partito. In Emilia, nel Lazio e in Sicilia non sono neppure stati presentati i progetti esecutivi. «I soldi non ci sono — spiega a Repubblica uno dei vincitori del bando — le Regioni pensavano di ricevere subito i 700 milioni dalla Struttura commissariale, invece non è arrivato un euro. Gli enti locali che hanno qualche risorsa in bilancio possono avviare lavori minimi, ma nessuno è in grado di anticipare le somme intere».
“O posti letto o zona rossa ”
Dunque: i posti letto aggiuntivi non sono ancora stati realizzati. Ma, in compenso, ne sono stati creati di virtuali. Il livello di occupazione delle terapie intensive è, infatti, uno dei principali indicatori per la classificazione delle Regioni in giallo, arancione e rosso. Si sono osservati andamenti strani nei dati comunicati al governo, con posti di terapia intensiva spuntati dal nulla. Il Nas indaga su 39 posti letto di terapia intensiva in Molise in parte mai attivati. In Sicilia i carabinieri, inviati dal ministro Speranza, hanno recuperato un audio del responsabile del dipartimento Salute Mario La Rocca nel quale lo si sente chiedere ai direttori di inserire dati dubbi nel sistema informatico. «Oggi faranno le valutazioni e in funzione dei posti letto in terapia intensiva decideranno in quale fascia la Sicilia risiede». I posti «erano funzionanti», si è difesa la Regione.
In Puglia nei giorni scorsi si è alzata la voce del professor Tommaso Fiore, luminare di anestesia: «Ci sono cento posti che esistono soltanto sulla carta». Si riferisce a quanto è accaduto tra il 5 e il 6 febbraio, quando la disponibilità comunicata al ministero è salita miracolosamente da 460 a 569 nell’arco di una notte. Quei letti, 569, non erano tutti destinati ai pazienti gravissimi. «Il numero è quello: nel conto ci sono però anche 35 posti subito attivabili», spiegano dagli uffici della Regione. «Abbiamo il personale».
I privati e gli ospedali da campo
Il puntiglio della replica non è casuale. In Puglia, infatti, ci sono una cinquantina di posti, finiti e pagati, nel nuovo padiglione (provvisorio ma costoso: 18 milioni di euro) alla Fiera del Levante che non si riescono ad aprire proprio per mancanza di personale. Un problema che si verifica in tutta Italia. I governatori hanno due strade, per ovviare. Rivolgersi ai privati, come stanno facendo in molti, pagando tra i mille e i duemila euro un posto di terapia intensiva, anche quando rimane vuoto. Oppure realizzare costosissime strutture temporanee: a Torino hanno speso 5 milioni per il Valentino e le ex Officine grandi riparazioni. Oggi il Piemonte affronta il picco. E sono entrambe chiusi.