La storia ha dimostrato che tra ottimisti e Cassandre vincono quasi sempre le seconde. E temo che anche in questo caso sarà così e che in autunno dovremmo fare i conti con una nuova ondata. Ma oggi abbiamo gli strumenti per affrontarla, sta solo a noi non cullarci nel miraggio della fine della pandemia. E le armi sono due: vaccinazione periodica obbligatoria e la costruzione di una rete sanitaria dedicata e predisposta all’emergenza per non mandare il tilt il sistema sanitario
La rapida (attesa) decrescita della quarta ondata pandemica unita alla (inattesa) guerra in Ucraina, con tutte le sue inedite (in questo secolo) drammatiche ripercussioni geo-politiche-economiche, hanno fatto sì che il Covid sia scomparso dalle prime pagine.
Ma come sappiamo quegli straordinari microscopici esserini che chiamiamo virus se ne fregano dei contesti esterni e continuano a fare il loro lavoro imperturbabili. Adattandosi, modificandosi, andando in letargo per un po’ per ricomparire quasi sempre, in forma magari diversa ma comunque pronta alla riconquista del “loro” spazio vitale nelle comunità umane.
Spesso accade che questa ricomparsa sia caratterizzata da un profilo “endemico” e non più “pandemico” che richiede comunque una programmata capacità di risposta sanitaria di cui però al momento sembra che nessuno abbia molta voglia di parlare.
Anche le poche Cassandre del ritorno in autunno del Covid (Ricciardi, Cartabellotta e pochi altri) sono ascoltati al massimo con sufficienza se non proprio facendo gli scongiuri come fossero per l’appunto, più che razionali osservatori, dei menagrami del virus e dell’emergenza a tutti i costi.
E le cose da fare sono essenzialmente due: predisposizione della nuova campagna di vaccinazione avendo finalmente il coraggio di inserire la vaccinazione anti Covid periodica tra le vaccinazioni obbligatorie e la costruzione di una rete assistenziale territoriale e ospedaliera dedicata al contenimento e al trattamento terapeutico di una nuova possibile ondata virale autunnale, oggi e nel futuro prossimo.
Ne ho già scritto a gennaio in piena quarta ondata e ne riscrivo oggi, devo dire con una certa soddisfazione per il fatto che una personalità come Guido Rasi, per anni alla guida dell’Ema, sottolinei ora che non aver previsto fin da subito l’obbligo vaccinale sia stato un errore (e quindi, dico io, non è mai troppo tardi per rimediare) e che almeno una regione italiana, la Lombardia, sembra stia andando nella direzione di dare vita a un hub regionale dedicato alle emergenze sanitarie.
Vaccini come arma preventiva fondamentale per limitare la circolazione del virus e per abbatterne la capacità di provocare malattia grave e morte e strutture di emergenza da attivare alla bisogna, insieme al mantenimento di una rete territoriale pronta ad essere operativa sul modello delle attuali Usca, per ottimizzare la presa in carico dei malati con percorsi separati e dedicati che evitino il rapido over booking dei reparti tradizionali e della medicina territoriale.
Su come potrebbe essere messa in piedi questa nuova strategia di approccio alle emergenze ha scritto il 17 gennaio scorso sul Corriere della Sera anche Sergio Harari, professore di Medicina interna all’Università degli Studi di Milano e direttore della Pneumologia e della medicina interna all’Ospedale San Giuseppe MultiMedica di Milano.
“La sanità e soprattutto gli ospedali – sostiene Harari – devono attrezzarsi per un nuovo scenario, nel quale poter gestire i pazienti con problemi chirurgici e internistici positivi al virus senza ritardarne diagnosi e terapie e senza rallentare le altre attività. In parallelo ci saranno reparti di malattie infettive, pneumologia, medicina interna, terapia intensiva, dedicati alla cura di chi ha la malattia causata da SARS CoV-2”.
“Non è impossibile farlo – spiega il professore – anche se richiede un ripensamento delle nostre strutture ospedaliere ma in questi due anni abbiamo imparato molto: bisogna prevedere stanze a pressione negativa in tutti i reparti di degenza (è una modalità di ventilazione dell’aria che riduce il rischio infettivo e si usa già in molte situazioni, come quando si ricoverano pazienti con tubercolosi polmonare), studiare percorsi distinti «sporco e pulito», fare lavorare le camere operatorie e i servizi (radiologie, endoscopie, ecc.) con slot di orari distinti per tipi di pazienti, e così via”.
“Nel prossimo futuro – conclude Harari – dovremo immaginare ospedali architettonicamente studiati per far fronte a queste situazioni e che possano essere rapidamente convertiti, così come un po’ empiricamente abbiamo fatto nei mesi passati facendo spesso di necessità virtù”.
Insomma non stiamo parlando di fantascienza ma di una predisposizione strutturale fattibile e alla nostra portata.
Purtroppo temo però che sia la messa in campo di una rete di emergenza che l’obbligo vaccinale non siano al momento nell’agenda della politica nazionale e regionale (salvo l’eccezione della Lombardia per l’hub di emergenza) e le dichiarazioni ancora molto timide di Aifa sulla necessità di un richiamo vaccinale in autunno, tra l’altro forse limitato ai soli over 50.
La storia ha dimostrato che tra ottimisti e Cassandre vincono quasi sempre le seconde. E temo che anche in questo caso sarà così.
Cesare Fassari – Quotidiano sanità