Affari&Finanza. Un gruppo ristrettissimo di società che controlla tutta la catena del valore (dalle miniere ai cargo, fino alle banchine dei porti) ha messo a segno guadagni miliardari approfittando delle quotazioni record delle merci. Con non poche zone d’ombra. Prima hanno approfittato della corsa record dei prezzi, all’indomani della fine dei lockdown, grazie alla ripartenza dell’economia globale complicata dai colli di bottiglia della logistica, con le navi cargo in coda – anche per settimane – in attesa di scaricare nei porti. E da tre mesi a questa parte, hanno un’altra occasione irripetibile: la guerra in Ucraina, che ha sconvolto i mercati dei beni di prima necessità per industria e agricoltura, provocando l’avvio di una spirale inflazionistica, possibile anticamera di una nuova recessione.
Sono i signori delle materie prime, un gruppo esclusivo di multinazionali che controllano tutta la catena del valore: possiedono miniere, gestiscono le compagnie mercantili che le trasportano, organizzano le banchine dove approdano le merci. E investono miliardi sui mercati finanziari dei derivati: per coprirsi da eventuali fluttuazioni dei prezzi, ma soprattutto per accumulare ulteriori guadagni.
I loro nomi dicono anche poco ai non addetti ai lavori e persino nelle cronache finanziare compaiono poche volte, per l’assoluta discrezione con cui operano. Un particolare per tutti: la Svizzera è la sede preferita per i loroheadquarter, in alternativa le principali piazze finanziarie dei derivati sulle materie prime, come Londra (per l’Europa), Chicago (Stati Uniti) e Singapore (Asia).
Secondo un dato recentemente pubblicato dal settimanale Espresso, le prime quattro società che operano nel trading delle materie prime (Vitol, Trafigura, Gunvor e Glencore) hanno toccato gli 848 miliardi di dollari nel 2021. Questo significa che hanno raddoppiato il loro giro d’affari rispetto al 2020 (anno del Covid), ma hanno nettamente superato anche i numeri del 2019, quando il fatturato arrivò a 676 miliardi di dollari.
Basta guardare ai dati finanziari dei colossi in questione per rendersi conto di quanto possano influire sull’andamento del settore.
Nel corso del 2021 Glencore ha realizzato un utile di 5 miliardi di dollari, mettendosi alle spalle la perdita di 1,9 miliardi dell’esercizio precedente, su cui aveva ovviamente pesato la crisi del coronavirus e una serie di ammortamenti straordinari. I ricavi sono aumentati del 43%, a 203,8 miliardi di dollari. Il risultato operativo è triplicato, passandoda 4,4 a 14,5 miliardi, e rispecchia alla perfezione l’andamento del titolo in Borsa. La società ha sede nel cantone di Zugo ma è quotata sia a Londra che a Johannesburg: dopo il crollo del 2020, sul listino ha guadagnato oltre il 220%, tornando ai massimi storici che aveva già toccato nel 2012. Numeri giustificati se si guarda agli asset di Glencore: è presente in 35 Paesi (135mila dipendenti), ha interessi in una sessantina di commodities (in particolare rame, zinco, oro, argento, e carbone, oltre all’immancabile petrolio). E gestisce circa 150 miniere e pozzi petroliferi. Crescita simile anche per l’altro colosso con sede in Svizzera: Trafigura ha visto l’utile netto raddoppiato da 1,6 a 3,1 miliardi di dollari. Mentre Vitol, numero uno al mondo per gli scambi sul petrolio, secondo Bloombergha registrato un utile netto di 3 miliardi di dollari l’anno scorso, in aumento del 30%.
L’intervento sui mercati di simili colossi crea fenomeni distorsivi: l’8 marzo scorso, con il prezzo del nickel ai massimi storici, il London Stock Exchange è stato costretto a sospendere più volte le quotazioni, quando i contratti in poche ore hanno guadagnato anche il 245%. «Coloro che negoziano materie primenon conoscono la parola crisi», ha dichiarato Adrià Budry Carbò, esperto di materie prime dell’organizzazione non governativa Public Eye, come si legge in una inchiesta molto approfondita della tv della Svizzera italiana, svelando un altro modo in cui guadagnano con le loro attività.
«I Paesi produttori, spesso fortemente indebitati – ha detto il responsabile della Ong – sono esclusi dai canali di finanziamento tradizionali, e le condizioni alle quali i grandi gruppi prestano capitali fanno sembrare il Fondo monetario internazionale una banca di sviluppo». In altre parole, con l’inizio della pandemia alcuni Paesi dove si trovano ricche riserve di materie prime ma non sono particolarmente affidabili dal punto di vista delle garanzie, sono stati aiutati dalle multinazionali con cui sono in affari, le quali hanno ottenuto prilungamenti di contratti a prezzi vantaggiosi. E ora che i prezzi sono alle stelle, passano all’incasso.
Giusto per ricordare un caso concreto, di cui si è parlato molto nei mesi scorsi: a ottobre Glencore ha iniziato i colloqui con il governo del Ciad per ristrutturare il suo debito commerciale. Si tratta di 1,1 miliardi di dollari, sottoscritto attraverso accordi “oil for cash” (petrolio in cambio di contante). Il debito totale del Ciad, secondo un documento del Fondo Monetario Internazionale, si avvicina ai 3 miliardi di dollari: «La sua ristrutturazione è una condizione per ricevere ulteriore sostegno finanziario».
Come talvolta accade, chi domina il mercato lo fa anche sfruttando ampie zone grigie, spesso al limite della legalità, in cui è facile inciampare. Protagonista ancora Glencore: solo poche settimane fa ha accettato di pagare 1,06 miliardi di dollari agli Stati Uniti e al Brasile, dopo essersi dichiarata colpevole dei reati di corruzione che gli erano stati contestati per le sue attività in Africa e Sud America. «Glencore non è più la società che era quando si sono verificate quelle pratiche inaccettabili», ha garantito il presidente del consiglio di ammministrazione, Kalidas Madhavpeddi. E ha garantito di aver migliorato tutti gli standard etici e di controllo legale, secondo le best practice a livello mondiale. Anche per i signori delle materie prime forse è arrivato il momento di una finanza più sostenibile.