di Antonio Di Lorenzo. C’è chi restaura il Colosseo come Diego Della Valle, chi sistema il malandato ponte di Rialto come Renzo Rosso e c’è chi decide di acquistare vecchi capannoni, demolirli e restituire i campi alla natura. Auguriamoci che l’idea di Brunello Cucinelli, che in Umbria vuole salvare in questo modo cento ettari di Terra (sì con la “T” maiuscola) abbia molti seguaci dalle nostre parti. Ne abbiamo bisogno.
Il Nordest d’Italia è stato la locomotiva dello sviluppo industriale e il Vicentino era la caldaia di questo motore. Oggi le fabbriche che rappresentarono il cuore della seconda rivoluzione industriale sono rinate a centri culturali, come la Saccardo a Schio oppure il Lanificio Conte, splendido esempio di recupero architettonico e civico. Così il Veneto si trasforma nella locomotiva che traina l’economia delle nuove intelligenze. Perché per quello sviluppo abbiamo pagato un prezzo alto, molto alto: ogni Comune voleva la sua zona industriale (ce ne sono 5.800 nel Veneto) e l’autostrada Serenissima è la spina dorsale di una megalopoli che attacca case e capannoni (tanti vuoti ormai) per 200 chilometri senza interruzione.
Quando parliamo dell’Expo di Milano, pensiamo meno ai turisti e di più al futuro del Pianeta, magari fornendo qualche segnale che susciti la speranza non solo che termini la crisi, ma che l’Uomo (anche qui serve la maiuscola) sia capace di invertire la rotta di autodistruzione di cui sta dando incommensurabile prova. Sì, restituendo alla Terra pezzi che le abbiamo rubato, rovinato ma che non sono nostri. Ammoniva il grande Andrea Zanzotto: «Tra i campi di sterminio e lo sterminio dei campi non c’è differenza»
Il Giornale di Vicenza – 30 novembre 2014