di Sergio Harari. La carenza di medici, da tempo preannunciata, è ormai diventata una concreta emergenza nazionale. Le cronache di queste settimane ci raccontano di professionisti ottantenni in piena attività, di medici militari quasi «precettati» per far fronte alle carenze, di pazienti che non trovano un medico di medicina generale dal quale farsi assistere. Le ragioni sono da riconoscersi in una programmazione sbagliata, dopo i boom universitari degli anni 70 e 80, nella perdita di un certo prestigio sociale, nell’esplosione della contenziosità giudiziaria e anche in un mancato riconoscimento economico (i medici italiani sono tra i peggio pagati in Europa).
Alcuni correttivi parziali sono stati messi in atto, seppure tardivamente, come la legge Gelli, ma non basteranno certamente a far fronte alla situazione. Ci aspettano anni difficili prima che un allargamento delle maglie universitarie si faccia sentire, diventerà quindi indispensabile valorizzare le poche risorse professionali che avremo a disposizione e soprattutto non perderle.
Per questo è necessario immaginare una diversa politica salariale che prevenga migrazioni estere, ma anche una nuova organizzazione delle attività nella quale si massimizzino le competenze. Oggi i medici sono impiegati a svolgere attività che potrebbero essere facilmente delegate, che vanno dal battere a macchina lettere di dimissione e relazioni (le segretarie sono considerate un lusso), al compilare schede, partecipare a infinite riunioni amministrative, superare una burocrazia ostile a tutti. Gli infermieri, che dovranno ulteriormente crescere nel loro profilo professionale assieme a fisioterapisti, nutrizionisti, logopedisti e altri ancora, potrebbero coprire molto meglio e più appropriatamente dei medici aspetti fondamentali dell’assistenza. Ma perché tutto questo avvenga è necessario ripensare i modelli organizzativi, una piccola rivoluzione che non può più attendere.
Il Corriere della Sera