È stato bene giungere alla firma del contratto di lavoro degli statali. Un importante segnale dopo anni di blocco e di paralisi. Risultato che non deve portare a rinunciare ad alcune analisi sul ruolo del contratto collettivo e su alcune discipline ivi contenute.
Il contratto collettivo non “serve” solo a dare i soldi.Il personale è un fattore centrale nell’organizzazione della pubblica amministrazione e, pertanto, non può essere trascurato o “sacrificato” il modo in cui viene organizzato e disciplinato.
Per vedere le conquiste e i passi fatti avanti con l’ultimo contratto per gli statali, che potrà costituire un modello per gli altri comparti, occorre analizzare il modo in cui disciplina alcuni istituti e soprattutto con quali finalità e con quali effetti.
Uno di questi temi riguarda i profili professionali e gli inquadramenti, cioè la domanda di competenze che nel settore pubblico è stata, soprattutto negli ultimi 30 anni, fortemente condizionata dalle relazioni sindacali. Se nel privato, è il datore di lavoro che decide quanti e quali profili professionali scegliere, nel settore pubblico l’approccio cambia e i risultati sono chiaramente diversi. Molti contratti collettivi prevedevano che i profili fossero materia di contrattazione o concertazione, alcuni solo di informazione (l’eterogeneità massima), ma solo con il decreto Brunetta del 2009 (comma 4bis dell’art. 6 del d.lgs. 165/2001) si riportava al datore di lavoro l’individuazione dei profili nell’ambito della programmazione dei fabbisogni.
Con l’accordo tra governo e sindacati del 2016 e con il D.lgs. 75/2017 si ritorna ad un modello concertativo anche su questa materia, strategica per il datore di lavoro. O, almeno, per un vero datore di lavoro. Soprattutto oggi in un contesto in cui la Pa italiana ha il personale più vecchio dei paesi Ocse e con i profili professionali più obsoleti, servirebbe uno svecchiamento sulla base di un modello di amministrazione nuovo che la parte datoriale dovrebbe riuscire ad esprimere.
Il contratto degli statali recentemente firmato prevede all’articolo 12 una commissione paritetica sui sistemi di classificazione professionale con il compito di individuare nuove figure o di pervenire alla definizione di figure polivalenti e di verificare i contenuti dei profili professionali in relazione ai nuovi modelli organizzativi, ma con l’obiettivo esplicito di definire «ulteriori opportunità di progressione economica per il personale apicale di ciascuna area o categoria» e di pervenire alla «revisione dei criteri di progressione economica del personale all’interno delle aree o categorie», nonché di verificare la «possibilità di operare una revisione degli schemi di remunerazione correlati alle posizioni di lavoro». Tutte finalità di interesse dei sindacati, che poco hanno a che fare con un ridisegno della Pa dei prossimi 20 anni.
Di norma, in questa materia, gli interessi in gioco sono due. Al datore di lavoro dovrebbe interessare la qualità del reclutamento e quindi l’inserimento di profili corrispondenti alle esigenze organizzative presenti e future. Alle organizzazioni sindacali interessa consentire agli iscritti di avere i maggiori benefici e quindi di orientare i profili e la programmazione dei fabbisogni in favore dei presenti e non di futuri lavoratori, favorendo ad esempio le progressioni di carriera degli interni.
Per favorire gli interni o stabilizzare i “precari” occorre mantenere i vecchi profili. Si realizza un meccanismo di opposti interessi facilmente spiegabile con la insiders/outsiders theory of employment. Qualche critico potrebbe dire che nuovi profili potrebbero servire a ben poco se il reclutamento dei prossimi anni sarà condizionato, come è accaduto già nel 2007 e nel 2013, dalla stabilizzazione dei contratti a termine degli ultimi 8 anni oppure da una nuova campagna di progressioni di carriera.
Come sempre il sindacato fa bene il suo mestiere nel difendere i propri iscritti, mentre la parte datoriale non fa bene il proprio concedendo potere e scelte che condizionano e condizioneranno negativamente il funzionamento della struttura. Non c’è traccia di riflessione sulle strategie di reclutamento dei prossimi anni, sulle competenze necessarie, né sulle digital skill. Possibile che mentre tutti i settori dell’economia e della società si pongono il problema di come gestire i big data, l’internet of things o realizzare forme avanzate di e-service, nella Pa siamo ancora a subordinare l’aggiornamento dei profili alle progressioni di carriera?
Difficilmente i dirigenti pubblici nei prossimi anni potranno affrontare le sfide del futuro senza risorse e con un personale vecchio anche dal punto di vista delle competenze. Ma forse alla Pa non si chiederà di funzionare e di erogare servizi, ma solo di non costare troppo. Se va bene.
Francesco Verbaro – Il Sole 24 Ore – 8 gennaio 2018