Nicolas Schmit muove l’indice come per evidenziare su uno schermo virtuale le sue parole, per la verità già piuttosto decise. «Non possiamo assolutamente sganciare i salari dall’inflazione», assicura il commissario Ue per il Lavoro e i Diritti Sociali in una pausa del World Economic Forum. Le ragioni sono almeno due, spiega: «C’è ancora una diffusa penuria di capitale umano e bisogna tenere da conto la questione sociale, perché si rischiano tensioni se la gente non può permettersi di vivere in modo dignitoso». Proteggere i lavoratori, afferma il lussemburghese, ex ministro socialista, è importante quanto dar loro una nuova chance di una vita migliore. Per questo argomenta che se il reddito di cittadinanza non funziona «va migliorato e non abolito», anche con controlli più efficaci. E per questo confessa di avere interesse, ma non certezze sulla settimana corta di quattro giorni. «E’ una scommessa che cambia di settore in settore – concede – lasciamo che siano le parti sociali a decidere».
Commissario, partiamo dallo scenario. Come sta l’economia europea?
«C’è il rischio di una recessione, l’inflazione è un problema e ancora di più la guerra».
Una festa per i pessimisti…
«Normalmente sono ottimista, ma con questo conflitto sono più cauto. Ci sono troppo parametri che non conosciamo. Non vedo una via d’uscita facile, specialmente dalla parte dei russi, il cui atteggiamento è completamente folle. Hanno ragione gli ucraini. Gli hanno distrutto il paese, hanno migliaia di gente uccisa dagli aggressori: non possono sedersi con il nemico. Sarà ancora lunga».
Servono strategie anticicliche per riprendere a crescere. Nel nostro caso, come si difendono i salari?
«La prima cosa da fare è combattere l’inflazione sin dove è possibile, non in modo brutale che favorisca la recessione, bensì con approccio graduale a base di misure di bilancio e monetarie. Le cause dell’aumento dei prezzi sono diverse dal passato. Sono legate all’offerta, energia, cibo e altro. Ora mi attendo che l’inflazione rallenti, ma non credo che avremo tanto presto i prezzi al 2 per cento. Nei prossimi anni, non so per quanto, dovremmo accettare un livello più alto, 4 o 5%».
Lei sostiene che i salari non vadano sganciati dall’inflazione. Non si rischia così di alimentare la corsa dei prezzi?
«Una compensazione deve esserci. Non esagerata, sia chiaro, proprio per non gettare benzina sul fuoco, però bloccare gli stipendi non è mai stata una buona soluzione. È una mediazione che spetta alle parti sociali che, sinora, si sono dimostrate molto responsabili. Le remunerazioni sono salite, ma meno dell’inflazione. La spirale salari/prezzi, che è pericolosa certo, non si vede per il momento».
Coprire il costo della vita al 100 per cento o meno?
«Non sta a me dirlo. Tocca ancora alle parti sociali. Ci sono settori che possono permettersi aumenti maggiori perché con l’inflazione hanno guadagnato di più. Altri comparti, non possono. È tutto nella partita negoziale per i contratti».
Chi ha margini maggiori?
«Nel settore pubblico l’esempio è la Sanità è una questione centrale, c’è un’emorragia di lavoratori. Per questo è importante mantenere le retribuzioni o aumentarle. È la lezione del Covid. Ci sono poi comparti industriali che non trovano la manodopera di cui hanno bisogno, come la ristorazione e l’accoglienza, che devono migliorare le condizioni di lavoro e le paghe».
È aperto il dibattito sulla riorganizzazione dell’orario di lavoro. Sul tavolo c’è anche la settimana di quattro giorni.
«Personalmente, vedo un interesse e anche il parlamento europeo sta studiando il caso. Ci sono stati degli esperimenti di quattro giorni. La sola cosa che mi rende un poco scettico è che nel mondo del lavoro abbiamo c’è una offerta significativamente corta, come nel settore della Sanità: è difficile combinare la settimana corta con i posti che non si riescono ad assegnare. Ci sono comparti che potrebbero rendersi più attraenti se offrissero i quattro giorni. Altri che, se riducono l’orario, dovrebbero compensare e assumere, il che non sempre è possibile. Si può studiare e può funzionare. Ma è un po’ una scommessa sul fatto che si produca di più perché la gente lavora di meno. Non è comunque un impulso che deve venire dall’alto; dipende dalle parti sociali».
Il governo italiano ha annunciato la fine del reddito di cittadinanza senza proporre una alternativa. Cosa dovrebbe fare un bravo paese democratico del G7 che ha una grande industria e molti poveri?
«Io non sono favorevole a un reddito di base senza condizioni. Non è la soluzione, anche se so che fra i promotori del reddito c’è chi lo pensava. La raccomandazione della Commissione dice che si deve offrire a chi è impedito temporaneamente di lavorare o a chi semplicemente non può farlo. Però se dici che non ha funzionato la mossa migliore è correggerlo e sostituirlo con una formula migliore. Significa lavorare sull’inclusione nel mercato del lavoro, ad esempio. Vuol dire compiere tutti gli sforzi per consentire a uomini e donne di avere una autonomia personale, con un lavoro vero e regolare, con misure sociali e con una adeguata formazione».
Il reddito non ha funzionato davvero.
«Il principio è semplice. Lo stato deve sostenerti. Ma la regola non può essere “io ti pago e poi mi disinteresso di te”. Si tratta di dire “ti pago e ti chiedo qualcosa in cambio”, come partecipare a piani di formazione e impegnarsi a valutare nuovi lavori».
In Italia ci sono molti casi di gente che prendeva il reddito poi viveva in nero. Mica bello.
«Una buona amministrazione deve impedire che ciò accada. Deve controllare, intervenire per correggere e punire le irregolarità».
È legittimo rifiutare un posto perché troppo lontano da casa.
«Se hai una famiglia, una casa, dei parenti, magari un partner che lavora, non puoi certo accettare di andare ovunque. Un limite deve esserci e va discusso. Ma la vera questione è creare lavori buoni e adeguati. Il reddito deve essere l’ultima risorsa».
Dunque, è necessario?
«Qual è l’alternativa se qualcuno è disoccupato? Lo lasci finire in mezzo a una strada? No! Lo aiuti a trovare un’occupazione e nel frattempo gli dai i mezzi per sopravvivere con una strategia adeguata di inclusione sociale».
In Italia il dibattito sul salario minimo non decolla. Nessuno è contro, solo non si va avanti.
«Se hai un contratto, hai un salario minimo legale; il problema è nei settori non coperti da contratti nazionali. La situazione cambia da Paese a paese. L’Italia e la Svezia sono economie molto diverse che non hanno un salario minimo, e un differente approccio alla contrattazione collettiva. Non spetta alla Commissione dire cosa si deve fare. Noi abbiamo indicato una cornice per definirlo. Ora il passo è demandato alla contrattazione collettiva, pertanto alle parti sociali. È così che si fanno le cose». —