di Dario Di Vico. Alla fine la maggioranza ce l’ha fatta e la Regione Veneto ha votato per l’istituzione del bilinguismo. In concreto ancora nessuno sa come funzionerà davvero ma si è sancito il principio che i veneti sono una «minoranza linguistica». Toccherà all’Istituto della lingua veneta scegliere le associazioni che rilasceranno un certificato di «veneticità» in base al quale il cittadino potrà far valere i suoi diritti a scuola o in tribunale. Il tutto è su base volontaria, le spese vanno però a carico dello Stato ed è facile pensare che attorno al bilinguismo finirà per prosperare una piccola burocrazia del dialetto.
A intestarsi la battaglia sono stati la Lega Veneta, la lista Zaia e gli esponenti vicini al sindaco di Verona, Flavio Tosi. L’intento è chiaramente politico-propagandistico e serve a scaldare i cuori degli indipendentisti in attesa delle prossime campagne elettorali, ma è chiaro che in termini di immagine il danno c’è tutto. Già oggi non è facile per le medie imprese ingaggiare manager stranieri o addirittura convincere i milanesi a spostarsi, l’enfasi sulla «veneticità» rischia di accrescere le distanze in nome di un Veneto chiuso. Persino Riccardo Barbisan, il consigliere leghista che ha presentato la proposta di legge, se ne deve esser reso conto visto che, intervistato dal «Corriere del Veneto» ha sostenuto — bontà sua — che il bilinguismo serve «a creare un Veneto internazionale, aperto al mondo e ad attrarre investitori». È proprio il caso di dire che la lingua batte dove il dente duole.
L’agenda nordestina di fine 2016-inizio 2017 dovrebbe invece avere tutt’altre priorità. Il caso dei due maggiori istituti di credito locali, la Popolare di Vicenza e Veneto Banca, è ancora aperto e i pessimisti temono che finiscano per pagare i peccati dell’intero sistema bancario.
Le cifre fanno paura: un crac di 15,25 miliardi di euro che ha coinvolto in soli tre anni 205 mila azionisti. Il più grande dell’Italia repubblicana. Di chi è la responsabilità di questa sciagura se non dei sostenitori del Veneto chiuso e del localismo? Grazie infatti a un capillare sistema di coperture campanilistiche è nato e ha potuto prosperare un intreccio perverso di interessi tra banchieri e imprenditori.
Ora però la vicenda delle banche sembra destinata a fare da spartiacque tra due differenti epoche del Nordest e cominciano a pensarlo in molti. Tanto che nei giorni scorsi è stata presentata dall’economista Andrea Rigon una ricerca secondo la quale per tutta una serie di parametri il Veneto rischia di assomigliare più al Sud d’Italia che all’Europa. In altri tempi sarebbe stata rubricata come una bestemmia e il ricercatore lapidato nella pubblica piazza, stavolta nessuno ha avuto la forza di controbattere.
È dunque il bilinguismo la metafora dell’inevitabile declino nordestino? Fortunatamente no, le cose che si muovono in terra veneta sono tante e molte vanno nella direzione di richiedere maggiore apertura. Innanzitutto resta ancora vivacissimo il tessuto delle medie imprese innovative, molte delle quali non sono nemmeno mai arrivate all’onore delle cronache giornalistiche eppure si muovono in chiave globale e cercano nuovi mercati.
Ma la novità più importante è il superamento delle barriere tra università e impresa. Molto lo si deve al Piano industria 4.0 e al successivo riconoscimento dell’ateneo di Padova come uno dei sette competence center nazionali. Stavolta Padova è riuscita ad allearsi con le altre nove università nordestine e negli stessi giorni ha aperto per la prima volta un ufficio in un Paese estero: a Canton, in Cina. Veneto aperto contro Veneto chiuso.
Il Corriere della Sera – 8 dicembre 2016