Daniela Minerva. Due delibere, a Ferragosto. E la Regione Veneto fa saltare il banco: se il governo centrale non riesce a mandare i medici necessari in corsia — ne mancano circa 10 mila in tutto il Paese — ci penserà Venezia a riempire gli ospedali del suo territorio. Poco importa se l’assetto della formazione di chi è abilitato a curarci è uniforme in tutto il Paese e prevede laurea, specialità, accesso ai reparti e quindi al «mettere le mani sui malati», come dicono i camici bianchi.
Tutti gli aspiranti dottori devono seguire questo iter, ed è il governo centrale a decidere — valutando dati epidemiologici alla mano, come e quanto le diverse patologie colpiranno il Paese negli anni — quanti posti nelle scuole di specialità ci sono, con quali soldi verranno pagate le relative borse di studio, e quindi quanti dottori possono entrare nel sistema. È un vero e proprio atto di forza, quindi, l’assunzione «con contratti autonomi di 500 giovani medici, laureati e abilitati, ma non ancora in possesso della specializzazione, che frequenteranno un corso di formazione pratico e teorico, al termine del quale, con il tutoraggio di colleghi strutturati, 320 verranno introdotti al lavoro nell’area del Pronto Soccorso e 180 in quella della Medicina internistica (Medicina generale e Geriatria)», fanno sapere dalla Regione.
Perché, ha spiegato il presidente Luca Zaia, i buchi nell’organico degli ospedali impediscono di garantire i livelli essenziali di assistenza che sono un obbligo costituzionale. Come dargli torto? La carenza dei camici bianchi è un problema gigantesco che si traduce in disservizi ma anche in medici stanchi e stressati dal superlavoro che sono più esposti a fare errori come chiunque debba prendere decisioni complesse rapidissimamente pur essendo stremato.
La ministra Giulia Grillo ha emanato twitter, dirette FB, comunicati per dire che lei lo sa bene che questo è un guaio. Ma la consapevolezza non si è mai tradotta in niente. Perché i medici non ci sono in quanto sono troppo poche le borse per immetterli nelle scuole di specializzazione che rappresentano l’unica via d’accesso al sistema sanitario per i giovani laureati: 8.100 su 10.000 laureati circa. E non c’entra proprio niente il numero chiuso a Medicina perché i laureati ci sono, quel che manca sono gli specializzati.
Insomma, la porta per andare a lavorare in ospedale è stretta e passano pochissimi medici, a tutto svantaggio dei malati e dei servizi. Il duo Grillo- Bussetti (Marco, titolare della Pubblica Istruzione e dell’Università), tuttavia, ha pensato di aggirare l’ostacolo ampliando il numero dei giovani che potranno frequentare Medicina a partire dal prossimo anno (da 9979 che erano nel 2018 diventano 11568), e che quindi si laureeranno nel 2025 quando poi dovranno comunque entrare nelle scuole di specialità per altri 4, 5, 6 anni, posto che ci siano i soldi per pagarli e che si faccia una programmazione degli accessi in base a quelle che saranno le necessità del sistema nel 2025. Una misura fatta apposta per confondere le acque e far contenti un po’ di giovani, che non risolve niente né ora né tra 10 anni.
Eppure, l’azione di Zaia, per quanto giustificata dall’inerzia ministeriale, è pericolosa: delegare alle Regioni la formazione dei medici significa rafforzare il fatto che in Italia ci sono 21 sistemi sanitari dei quali una manciata funziona e gli altri no.
Possiamo davvero pensare che ogni Regione si formi i suoi medici come vuole? Che garanzie ci sarebbero per i pazienti più deboli nelle Regioni più fragili e meno virtuose? Proprio quando molti cominciano a pensare che la Riforma del Titolo V abbia danneggiato la salute degli italiani nel loro complesso, il Veneto alza il tiro e si arroga il diritto di formare i suoi camici bianchi come vuole.
Eppure, lo stallo si potrebbe sbloccare a livello centrale, e sono in molti a dire: borse di studio subito per far entrare i ragazzi in specialità, e subito i giovani in corsia. Per farlo però occorrerebbe che i ministeri interessati dessero un segno di vita.
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