La Stampa. La sanità pubblica è in difficoltà in molti Paesi, non solo in Italia. La crisi innescata dal Covid19 ha lasciato strascichi pesanti sui sistemi sanitari pubblici: un numero costantemente alto di ricoveri nei reparti di malattie infettive e di pazienti affetti dalle complicazioni note come long-Covid; ritardi nella gestione di tutti gli altri pazienti, con tempi di attesa lunghi e spesso inaccettabili per prevenzione, terapie e interventi; la crescente difficoltà nel reclutamento del personale ospedaliero, messo a dura prova dalla pandemia e dalle difficili condizioni di lavoro. A questo si aggiungono i costi esorbitanti dell’energia, che impongono di ridurre o azzerare gli investimenti per poter mantenere operativi gli ospedali.
Ma, guardando alla situazione specifica del nostro Paese, c’è un’altra ragione importante per spiegare la crisi della sanità pubblica: l’invecchiamento. L’Italia è il quinto Paese al mondo per aspettativa di vita, con una media di quasi 82 anni per gli uomini e 86 per le donne. Questa buona notizia, quando inserita nel quadro generale, diventa però preoccupante per la sostenibilità del Sistema sanitario nazionale (Ssn). La longevità degli italiani, anche a causa del forte calo di natalità, si riflette in un invecchiamento generalizzato della popolazione: l’età media della popolazione italiana è infatti di quasi 48 anni, contro i 42 della Francia o i 41 della Norvegia. Una popolazione anziana ha purtroppo maggiore bisogno di medici e terapie rispetto ad una più giovane. È vero infatti che viviamo più a lungo ma lo facciamo in uno stato di malattia, come evidenziato dal fatto che oltre la metà dei nostri anziani soffre di almeno tre patologie croniche, che richiedono cure mediche continue. Nonostante dunque l’invecchiamento renda la popolazione italiana sempre più fragile e bisognosa di una sanità efficiente, il quinto Paese al mondo per aspettativa di vita si colloca solo al ventesimo posto nella classifica della spesa sanitaria pro-capite (per fare un confronto, la vicinissima Svizzera è al terzo posto in entrambe le classifiche). Già questo dato basterebbe a spiegare l’inadeguatezza del nostro Ssn: una richiesta sempre crescente di prestazioni sanitarie che non si accompagna ad un adeguato investimento in termini economici. Ma c’è di più. Ad invecchiare, infatti, non sono solo i cittadini ma anche e soprattutto i medici: secondo dati recenti, l’età media dei medici della sanità pubblica è di 51,3 anni ma quella dei medici di famiglia è intorno ai 60 anni. La medicina generale dovrebbe rappresentare la prima linea di cura per tutti i cittadini ed è particolarmente importante per quelli fragili, bisognosi di assistenza continua. Ma i medici di famiglia sono pochi, in alcune aree del Paese pochissimi, e per di più disponibili per gli assistiti solo per poche ore alla settimana; il risultato è che troppo spesso i cittadini vengono lasciati soli di fronte alla malattia. E, allora, chi può permetterselo si affida alla sanità privata mentre chi non può è spesso costretto a rivolgersi alla medicina d’urgenza, anche per condizioni che non lo richiederebbero. Se già oggi la situazione ci appare critica, cosa accadrà nei prossimi anni quando non riusciremo a rimpiazzare i tanti medici che andranno in pensione? Nonostante molti studenti si iscrivano ogni anno ai corsi di laurea in Medicina, sono infatti sempre meno gli specialisti che scelgono la sanità pubblica e soprattutto alcuni suoi determinati settori, come la medicina generale e quella d’urgenza. E non saranno le soluzioni tampone recentemente proposte o adottate, come i medici a gettone o il mantenimento in servizio dei pensionati, a risolvere il problema ma, al contrario, potrebbero essere controproducenti. Per combattere l’invecchiamento dei nostri medici bisogna infatti riuscire ad attrarre i giovani, assicurando loro buone condizioni di lavoro, orari conciliabili con la vita privata, salari competitivi e la possibilità di una carriera stimolante per i più meritevoli. Bisogna continuare a puntare sulla formazione, che deve restare di alto profilo, per non correre il rischio di ritrovarci in futuro con un personale meno preparato di quello attualmente in servizio. Ed è necessario avere il coraggio e la capacità di ripensare all’organizzazione della medicina territoriale, oggi non più in grado di fornire risposte adeguate ad una popolazione che, dalla nascita del Ssn, è cambiata dal punto di vista sociale, demografico e sanitario. —
Antonella Viola, La Stampa