Luca Fiorin. «La contaminazione degli acquedotti da Pfas continua, nonostante i sistemi di filtraggio delle acque». Ad affermarlo sono gli ambientalisti del Comitato acqua libera dai Pfas, il cui portavoce Piergiorgio Boscagin spiega: «Dalle analisi risultano presenze di sostanze perfluoro-alchiliche in misure che rispettano dei parametri obiettivo validi qui, ma che in altri paesi, anche in Europa, sono molto più bassi».
PFAS E CATENE La presenza di Pfas nell’ acqua dell’acquedotto che viene pescata ad Almisano (Basso vicentino) da Acque veronesi è testimoniata dai rapporti che l’ulss 20 pubblica costantemente sul proprio sito Internet. Se questo non impedisce la potabilità dell’acqua, il problema è che ora è diventato più difficile fermare le sostanze perfluoro-alchiliche che contiene. Secondo la ditta considerata dalla Regione principale causa della contaminazione, l’azienda chimica Miteni di Trissino, già nel 2011 è cessata la produzione nel suo stabi limento dei Pfas tradizionali: ovvero di quelle sostanze basate su una catena ad otto atomi di carbonio che, se assunte in certe dosi, possono essere causa di una serie di malattie importanti per l’uomo. Da cinque anni Miteni sta producendo Pfas a catena corta, a quattro o cinque atomi di carbonio, che hanno una vita più corta degli altri. Per fermare i primi Pfas, da tre anni la centrale di distribuzione di Almisano utilizza filtri a carboni attivi. Tali filtri, che sono l’unica forma nota di contrasto a questi inquinanti, riescono però a fermare i Pfas a catena corta per un tempo molto più limitato.
Ha spiegato il direttore di Acque Veronesi, Francesco Berton: «Questi filtri hanno un’efficacia che dura in media 272 giorni per quanto riguarda i composti a catena lunga, ma solo 50 per quelli a catena corta». Un fatto in sé significativo, visto che ogni ricarica costa circa 200mila euro e che l’azienda effettua i cambi dei filtri circa ogni nove mesi.
I PERICOLI PER LA SALUTE Se i Pfas tradizionali sono in letteratura considerati possibile fonte di malattie cardiovascolari e legate all’eccesso di colesterolo – la cui presenza al di sopra della media regionale nell’area contaminata è confermata da uno studio epidemiologico della Regione, anche se non c’è un collegamento diretto con le sostanze perfluoro-alchiliche – su cosa facciano i Pfas a catena corta il dibattito è aperto. Raniero Guerra, direttore generale della Prevenzione sanitaria del ministero della Salute, nell’audizione in commissione parlamentare d’inchiesta sulle Ecomafie, ha citato uno studio compiuto in Spagna in cui viene «dimostrato un accumulo di Pfas a catena corta in fegato, polmoni, ossa, rene e cervello». L’inquinamento che interessa anche i 13 comuni del Veronese (Albaredo, Arcole, Bevilacqua, Bonavigo, Boschi Sant’Anna, Cologna, Legnago, Minerbe, Pressana, Roveredo, Terrazzo, Veronella e Zimella) serviti dall’acquedotto che pesca ad Almisano sarà anche per i Pfas a catena corta indagato dall’Istituto superiore di Sanità, cui la Regione ha chiesto di compiere verifiche.
POLEMICHE INCROCIATE «I Pfas, secondo quanto verificaio dall’Arpav, arrivano nelle falde a causa del percolamento delle acque superficiali e dal sito inquinato in cui c’è Miteni», afferma Boscagin. Finiscono anche nei depuratori del Vicentino, i cui reflui vanno nel «tubo» che li porta fino a Cologna Veneta, dove li scarica nel Fratta-Gorzone. Proprio per quanto riguarda il collettore, la Regione aveva recentemente concesso un’autorizzazione allo scarico che prevedeva un percorso di riduzione degli inquinanti da concludere nel 2020. La settimana scorsa, però, il ministero ha imposto che da subito il limite massimo degli inquinanti sia quello vigente per le acque potabili. «E una follia», commenta Antonio Mondarso, presidente del consorzio Arica, che gestisce il sistema depuratori-collettore. Secondo Mondardo, leghista di Cologna e poi trasferitosi nel Vicentino, l’attuazione di questi limiti «non è attuabile se non chiudendo decine, se non centinaia, di aziende». Una tesi sostenuta anche dall’ad di Miteni Antonio Nardone, che parla di «posizioni contradditorie».
«E dal 2013 che si sa di questo problema, adesso non si dica che non c’è più tempo per agire», commenta Boscagin, mentre i consiglieri regionali del Movimento Cinque Stelle accusano Nardone di affermazioni «contradditorie».
Il pericolo si annida anche nei pozzi privati
Di Pfas si è iniziato a parlare nel 2013 quando, in seguito a un’ indagine promossa dall’Unione europea, è emersa una contaminazione che interessa l’area a cavallo fra le province di Verona, Vicenza e Padova. Un territorio che, in seguito ai risultati di un biomonitoraggio compiuto nel Vicentino, dal prossimo novembre sarà oggetto dello screening sullo stato di salute della popolazione più grande fra quelli sinora realizzati o previsti al mondo. Per quanto riguarda le acque potabili, in tutto il Veneto sono vigenti limiti che non sono contenuti in un provvedimento legislativo, bensì sono derivati da un parere espresso dall’Istituto superiore di sanità e poi validato dal ministero dell’Ambiente. Attualmente, per poter definire l’acqua potabile, bisogna che ci sia una concentrazione massima di 500 nanogrammi per litro per gli Pfoa e di 30 nanogrammi per litro per i Pfos (questi sono entrambi composti a catena lunga) e di 500 nanogrammi per litro di tutte le altre sostanze perfluoro-alchiliche, a catena lunga e corta di atomi di carbonio che siano. Questi parametri sono attualmente rispettati dalle reti di distribuzione pubbliche, per cui l’acqua che scende dal rubinetto è ufficialmente potabile, ma devono essere verificati caso per caso per quanto riguarda l’acqua che viene prelevata da pozzi privati. In vari casi, di recente, in impianti di questo tipo sono stati riscontrati livelli elevati di inquinamento, che però non sono stati oggetto di provvedimenti visto che riguardavano pozzi non denunciati.
L’Arena – 28 luglio 2016