L’effetto serra si prepara a colpirci dove siamo più deboli: lo stomaco. Perché, dicono gli scienziati dell’Onu in un nuovo rapporto, l’impatto del clima sull’agricoltura e sull’ecosistema di mari e oceani ci costringerà a nuove abitudini alimentari. Così, nel 2050 insetti e carne sintetica potrebbero sostituire pesci, crostacei e bistecche. Ma anche prugne, legumi (e champagne) scarseggeranno sulle nostre tavole
Maurizio Ricci. Per dire: tartine di salmone, una fiorentina innaffiata con il Chianti, una coppa di ciliege e una profumata tazzina di caffè. Oppure: spaghetti con le vongole, aragosta, una bottiglia di Verdicchio, gelato alla pesca e l’inevitabile caffè.
Se il vostro medico, a sentire questi menù, salta sulla sedia e comincia a scrivere ricette da portare al più presto in farmacia, tranquillizzatelo. Ancora poco e tutti questi piatti saranno voli di fantasia, gustati soltanto nel ricordo o poco più. Mica soltanto lo champagne e altre sofisticate sciccherie, peraltro, sono destinati a svanire. Anche cibi più plebei, come il baccalà. Anzi, l’olio con cui condire l’insalata che manca già adesso. L’effetto serra si prepara a colpirci dove siamo più deboli: nello stomaco. Per i futurologi è festa grande. Già prevedono, nel 2050, una simpatica cenetta con antipasto di scarabei fritti, labburger (ovvero carne sintetica prodotta in laboratorio) con patate e tiramisù realizzato in casa con la stampante 3D, il tutto rallegrato da un rosatello frizzante Lapponia doc, eventualmente allungato con acqua ricavata strizzando il sudore dalla canottiera. Forse. La verità, nonostante i futurologi, è che non sappiamo cosa mangeremo. Ma cosa non mangeremo sì. E, dunque, niente più bistecche, cozze, prugne? Non esageriamo. Salvo catastrofi, questi cibi, riscaldamento globale o no, ci saranno ancora. Ma saranno rari, talvolta introvabili e, di conseguenza, molto costosi. Prepariamoci a mangiare molte patate e a cercare i fagioli nei delikatessen.
Nessuno nega l’impatto del clima sull’agricoltura. Con il riscaldamento globale, le regioni più meridionali diventeranno sempre più aride e le colture si sposteranno verso le aree più fresche del nord. Tuttavia, l’idea che questo sia, a livello globale, un gioco a somma zero, in cui quel che non si coltiva più in Emilia viene prodotto in Sassonia con l’aiuto fertilizzante del maggior tasso di anidride carbonica nell’atmosfera, non sta in piedi. «Se tu fai crescere una pianta in un bottiglione in laboratorio e aumenti la Co2 all’interno, la pianta cresce meglio, perchè l’anidride carbonica alimenta la fotosintesi », osserva Gerald Nelson, che ha curato un rapporto su agricoltura e riscaldamento globale per l’ International Food Policy Research Institute di Washington. «Ma avremo gli stessi risultati all’aperto, sui campi? Quello che ci dicono gli esperimenti sui campi fa pensare che, forse, non è così». La Co2 fa crescere più in fretta la pianta, ma i semi hanno meno tempo per maturare e la resa scende. A quanto pare, inoltre, l’anidride carbonica fa bene più alle erbacce che alle colture. Infine, l’anidride carbonica non è tutto: a nord le piante non rischiano la siccità del sud, ma le alluvioni sì. E i terreni settentrionali sono meno fertili. In conclusione, gli scienziati Onu, nell’ultimo rapporto Ipcc sul clima, semplificano così: se la temperatura aumenta più di 3 gradi, i raccolti scendono. Poiché nessuno crede più che il mondo riuscirà a contenere il riscaldamento alla media di due gradi caldeggiata dagli scienziati, la previsione è realistica. Più nello specifico, secondo il rapporto Ipcc, fino al 2030, vantaggi e svantaggi, più o meno si equivalgono. Ma, andando verso il 2050, i danni diventano più del doppio dei benefici. L’impatto sulla nostra tavola è pesante: e la lista di quelli che potrebbero diventare “i cibi del tempo che fu” si allunga. Chiamiamoli “i buchi neri del menu”. Ecco alcuni esempi…
SPAGHETTI
Secondo gli scienziati Onu, nelle regioni mediterranee come l’Italia, il calo dei raccolti di frumento potrebbe superare il 20 per cento: per pane e pasta dovremo ricorrere sempre di più alle importazioni, con costi crescenti.
BISTECCHE E LATTE
Per ogni grado in più di temperatura, il raccolto di mais scende del 7%. Già abbiamo registrato un calo della produzione mondiale del 4%. Il problema, però, non è la pannocchia di granturco, ma che il mais viene usato nella preparazione dei mangimi. È questo che mangiano le vacche negli allevamenti industriali: meno granturco significa meno carne e prezzi più alti. Ma l’aumento delle temperatura incide anche sulla produttività delle mucche: latte e formaggi saranno più cari. Chi non vuole rinunciare alla bistecca tenga conto anche che, in Italia, secondo l’Onu, il rischio di mortalità per le mucche, a causa di caldo e umidità durante il periodo in cui producono latte, salirà del 60%.
OSTRICHE E GAMBERETTI
In mare, l’anidride carbonica si scioglie, rendendo acida l’acqua. L’acidificazione degli oceani colpisce la formazione dei coralli, uno degli habitat preferiti dalla fauna marina. Ma compromette anche intere specie, rendendo più fragile e precaria la formazione di gusci, conchiglie ed esoscheletri. C’è già un problema con gli umili gamberetti, ma anche le nobili aragoste tendono a sparire dalle acque conosciute.
SALMONI E MERLUZZI
Gli scienziati Onu calcolano che i diversi impatti dell’effetto serra vadano a colpire quel 10-15 per cento di oceani che ospitano la maggior quantità di pesci. L’aumento delle temperature sconvolgerà gli ecosistemi, spingendo i pesci a migrare in acque inesplorate, con effetti sconosciuti. Ma alcuni di questi effetti sono già registrabili e prevedibili: le acque più calde rischiano, per esempio, di far saltare i cicli riproduttivi dei salmoni. Lo stanno già facendo per i merluzzi dei grandi banchi a ridosso dell’Artico, che mal tollerano temperature dell’acqua superiori ai 12 gradi. Quel che è peggio è che i merluzzi, se sul fondo la temperatura non resta sotto gli 8 gradi, trovano difficile riprodursi.
FAGIOLI
Contrariamente alla loro immagine popolare, i fagioli sono piante sensibili. Il caldo, soprattutto di notte, può colpirne la produttività, fino a ridurre il raccolto del 25 per cento.
CILIEGE
Come pesche, prugne e, in generale, i frutti con nocciolo, le ciliege hanno necessità particolari in materia di clima. Hanno bisogno di una buona dose di freddo perche l’impollinazione funzioni: troppe notti invernali miti rischiano di ritardare la fioritura e ridurre il numero di frutti prodotti.
MOSCHE E ZANZARE
Le zanzare che infestavano casa lo scorso dicembre dovrebbero essere già un segnale. Qualche sana gelata serve non solo a garantire il raccolto di ciliege, ma, soprattutto, a fare piazza pulita di insetti, batteri, funghi e altre pesti assortite che attaccano tutto lo spettro della produzione agricola. Almeno, a primavera, dovranno ricominciare da zero. Senza un po’ di freddo letale, invece, le popolazioni nocive rischiano di moltiplicarsi in modo esplosivo. Il clima è il grande regolatore di questi cicli. Se sballa, può succedere come quest’anno con la mosca olearia che, di fatto, ha azzerato o quasi la produzione italiana di olio extravergine.
CIOCCOLATO E CAFFÈ
Anche se cresce in posti caldi come Ghana e Costa d’Avorio, il cacao non regge qualsiasi temperatura. Con anche solo due gradi in più sul Golfo di Guinea l’equilibrio degli alberi di cacao sarà compromesso. Il caldo aumenterà la traspirazione e la conseguente perdita di umidità farà calare il raccolto. Oltre alla barretta di cioccolato, anche la tazzina di espresso è in pericolo. Il caffè ama il fresco dell’ombra degli alberi e troppo caldo non aiuta. Inoltre, favorisce la “ruggine del caffè” e altri funghi. America latina e Africa rischiano di perdere il grosso delle loro piantagioni, secondo qualche pessimista anche tutte. Addio “arabica”. Resta la variante asiatica, la “robusta”.
VINO
Gli storici ricordano con sussiego che, nel Trecento, prima della “piccola era glaciale” che interessò l’Europa fino a metà Ottocento, l’Inghilterra produceva un buon vino. È tornata a farlo: si segnalano ottimi spumanti. Ma lo slittamento a nord è disastroso per Australia e California, che potrebbero perdere i tre quarti della terra adatta alle vigne. E con il vino, il problema è anche la produzione che resta: non basta piantare i vitigni da cui si ricava il Chianti 500 chilometri più a Nord per avere un Greve o un Castellina. Altitudine, vento, esposizione al sole e, soprattutto, composizione geologica del terreno sono elementi determinanti per il bouquet di un vino. Non si è doc per nulla. Lo spumante del Northumberland sarà ottimo, ma dire addio allo Champagne (300 chilometri più a sud) sarà dura. Meglio brindare finchè si è in tempo.
“Puntiamo sugli alimenti che raffreddano il pianeta”
Carlo Petrini. Il pensiero di questo pianeta che si scalda è talmente inquietante, e talmente intenso, che molti tendono, quando non a negare l’intera faccenda, a esorcizzarla semplificando, talvolta, in modo eccessivo. Se bastasse ridisegnare la mappa delle coltivazioni tipiche, sostituendo un prodotto adatto ai climi freddi con uno indicato per i climi temperati, e quello dei climi temperati con uno di quelli buoni per i climi aridi, sarebbe anche una cosa sopportabile.
Ma i cambiamenti climatici innescano cicli di precipitazioni violente, disturbano il ritmo vegetativo del terreno, intervengono nell’equilibrio tra parassiti e piante target, cambiano la temperatura delle acque marine e quindi le condizioni in cui vivono i suoi abitanti. Gli inverni rigidi disinfestano i terreni dalle larve che i parassiti depositano durante l’estate. Ma se l’inverno non è abbastanza freddo, i terreni custodiranno le uova depositate per poi lasciarle evolvere ai primi calori, con la conseguente necessità, durante la stagione della coltivazione, di trovare rimedi — magari utilizzando ulteriore chimica di sintesi, che farà ripartire il circolo vizioso dell’inverno tiepido — per non perdere i raccolti.
Lo stesso vale per le primavere che si caratterizzano per una piovosità che non dà mai modo a suoli e vegetazione, di asciugare completamente, diventando il luogo ideale per la moltiplicazione di funghi indesiderati, come la peronospera che l’estate scorsa ha devastato le coltivazioni di pomodori di buona parte d’Italia.
Dietro ognuno di questi esempi c’è un’economia più o meno importante che viene danneggiata, uomini e donne che perdendo raccolti perdono clienti, si demotivano, cercano le soluzioni più rapide e spesso queste soluzioni sono alla base, come abbiamo detto, della ripartenza del ciclo.
Inoltre in questo gioco di progressivo accentuarsi dei caratteri meridionali dei climi del mondo, che fine fanno i territori che già sono al limite della desertificazione? Non è che se a Londra c’è il sole allora piove nel Sahara. I terreni che già oggi sono aridi oppure semi-aridi sono i primi a rischiare la totale infertilità, a meno di non creare infrastrutture per l’irrigazione con investimenti che raramente quei Paesi e quelle comunità si possono permettere.
Alcune cose le possiamo controllare, noi cittadini di buona volontà, attraverso le nostre scelte quotidiane: le buone pratiche che tutti ormai conosciamo o sulle quali possiamo informarci con facilità, riguardano sia quale cibo scegliere sia quali comportamenti quotidiani tenere (ridurre i consumi di carne; evitare i cibi e le bevande che richiedono molto packaging; evitare ogni minimo spreco; fare con cura la differenziata…). Altre le devono invece attuare, con estrema urgenza, i nostri governi, quelli nazionali e quello europeo: attraverso campagne di formazione e informazione, ma anche attraverso una politica di incentivi e disincentivi.
Produrre secondo modalità che peggiorano la situazione climatica, deve costare molto di più. Invece oggi succede esattamente il contrario: il cibo prodotto in base a scelte agronomiche o di allevamento che contribuiscono a riscaldare il pianeta ha costi di produzione bassi, arriverà al dettaglio a prezzi concorrenziali e sarà premiato da consumatori poco informati. Chi invece produce con cura verso la Terra, magari con tempi più lunghi e raccolti meno imponenti, sarà considerato “costoso” e verrà penalizzato dalle scelte dei più.
È tempo di intervenire in questi meccanismi, se vogliamo invertire la tendenza: premiamo il cibo che raffredda il pianeta, sosteniamone la produzione e la diffusione.
Repubblica – 17 febbraio 2015