Le Tac e le risonanze magnetiche, i mammografi e gli angiografi, le Pet e gli apparecchi per la terapia intensiva. Lo Stato risparmia e taglia, cura i conti ma meno la salute e la sicurezza. Col risultato che le apparecchiature decisive per esami cruciali, finiscono per ammuffire. Per assenza di investimenti, per il mancato aggiornamento del “parco” delle macchine sanitarie.
E così l’Italia è fanalino di coda, con apparecchiature tra le più vecchie in Europa, soprattutto in quella che conta e della quale abbiamo l’ambizione di far parte. Il risultato è eclatante: «In Italia 58mila apparecchiature sono obsolete», è la denuncia di Assobiomedica, l’associazione che raggruppa i produttori di industrie biomedicali. «Su 100mila apparecchiature censite – afferma Marco Campione, Ceo di Ge healthcare per l’Europa del Sud, che rappresenta il settore elettromedicali di Assobiomedica – circa il 60% hanno superato la soglia di adeguatezza tecnologica, con costi di gestione enormi».
Una sostituzione graduale, mirata e tarata sulle esigenze e le possibilità di spesa ovviamente, puntando sulle tecnologie di nuova generazione, è naturalmente la prima necessità. Ma non solo perché – o non tanto perché – l’impresa del biomedicale ha la sua visione. Il punto di caduta imprescindibile resta infatti quello della sicurezza massima delle cure, della qualità tecnologica il più possibile al top. Ricordando che le “macchine” sanitarie in Italia non sono poche, anzi. Il punto è che sono troppo vecchie, sfruttate, poco performanti.
La vetustà delle apparecchiature biomedicali è ben spiegata da pochi numeri. Il 74% dei mammografi hanno più di 10 anni di vita, così come il 50% dei ventilatori per la terapia intensiva e o il 77% dei sistemi radiografici fissi convenzionali. E in Europa? L’Italia, appunto, ha il triste primato dell’ultima (o quasi) della classe. Per dire: in Francia, Danimarca e Svezia tra il 60 e il 70% dell’intero parco di apparecchiature ha fino a 5 anni di età. Mentre in Italia le “macchine giovani” fino a 5 anni d’età, quelle sempre più hi tech dunque, sono sempre meno. Una rarità. Appena il 30% degli angiografi ce la fa. Il che è tutto dire.
Tutto questo, mentre il mercato dei dispositivi medici nel mondo è in crescita e si sta rivelando tra i principali driver della crescita. Tanto che si stima che il settore in tutto il mondo crescerà del 5,2% tra il 2015 il 2022, per un fatturato totale di 530 miliardi di dollari e con gli Usa leader. Mentre in Europa ha toccato i 100 miliardi di euro per il 71% conteso tra Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia e Spagna. Con l’8% del fatturato 88 miliardi l’anno) investito in R&S e il deposito di un brevetto ogni 50 minuti. Un mercato importante anche per l’Italia, con più di 698mila dipendenti e un tessuto di imprese – come dappertutto – spesso pmi, anche di piccolissime imprese. Solo il mercato pubblico da noi vale 5,71 miliardi (dati 2015, +0,8% sul 2014), secondo il nuovo rapporto del ministero della Salute. «Appena il 5% dei fondi pubblici per la sanità in un anno, nonostante il valore riconosciuto delle nostre tecnologie» dice Lugi Boggio, presidente di Assobiomedica.
Ma che fare per favorire il ricambio delle apparecchiature diagnostiche in presenza di risorse pubbliche scarse? Campione lancia qualche proposta: dalle tariffe modulabili alla francese con tariffe di rimborso che penalizzino anche pesantemente il ricorso alle “macchine” vecchie all’Iva agevolata come nel Regno Unito. Fino a incentivare la rottamazione. Le ricette non mancherebbero. Basterebbe pensarci. E pensare alla salute di tutti.
Roberto Turno – Il Sole 24 Ore – 22 dicembre 2016