di Filippo Tosatto. Medico internista, direttore della sanità del Veneto, Domenico Mantoan è la prova vivente della contaminazione provocata dallo sversamento massiccio di Pfas nelle falde acquifere del Vicentino. All’inizio dell’anno, le sue analisi del sangue hanno evidenziato concentrazioni di 250 nanogrammi di sostanze perfluoroalchiliche per grammo a fronte di una media fisiologica stimata in 4 (sic). Medice, cura te ipsum, verrebbe da dire. Mantoan vive a Brendola, nell’epicentro della “zona rossa” a più elevato inquinamento che comprende anche Montecchio Maggiore, Lonigo, Creazzo, Altavilla, Sovizzo, Sarego.
Dottor Mantoan, come ha contratto la contaminazione?
«Come tutte le altre persone che vivono in questa zona, cioè bevendo per anni l’acqua erogata dagli acquedotti e inquinata dagli scarichi chimici. Qui, da decenni, ogni comune attinge a pozzi di captazione che pescano nella falda freatica, perciò il contagio è stato inevitabile. Appena l’Arpav ne ha dato notizia, nel giugno del 2013, abbiamo messo in sicurezza gli acquedotti dotandoli di filtri a carbonio attivo, poi è iniziato il biomonitoraggio, io mi sono offerto volontario e figuro nel campione dei 507 soggetti esaminati dall’Istituto superiore di sanità».
Che ha provato quando ha letto la cifra 250 nel referto?
«Mi è corso un brivido nella schiena, sapevo che i miei valori sarebbero risultati anomali ma non mi aspettavo questa concentrazione. La media delle persone “esposte” si aggira sui 60-70 nanogrammi, insomma, io compaio nel range più alto. Poi, da medico, ho cercato di razionalizzare. La letteratura scientifica è carente, c’è uno studio statunitense su un analogo caso in Ohio e poco altro. Iss e Organizzazione mondiale di sanità attribuiscono ai Pfas un modestissimo potenziale cancerogeno mentre raccomandano attenzione alle possibili alterazioni metaboliche a danno di tiroide, fegato e reni. Disturbi particolari? Non direi, sono un iperteso, ma non da oggi. Dicono tutti che ho un brutto carattere, beh adesso potrò dare la colpa ai Pfas».
Ma cosa rischiano davvero i suoi compagni di sventura?
«Non possiamo anticiparlo con assoluta sicurezza, in proposito, l’indagine epidemiologica che stiamo mettendo a punto farà scuola a livello internazionale. I Pfas vengono eliminati naturalmente dall’organismo nel giro di 4-5 anni, ora stiamo vagliando la possibilità di accelerarne l’espulsione attraverso la plasmaferesi, la ripulitura del plasma dai corpuscoli estranei. Mi offrirò come cavia per l’esperimento».
Si profila uno screening imponente, 250 mila test su un arco pluriennale accompagnati dall’osservazione clinica. Come procederete?
«Parliamo di 250 mila provette “strutturate” – enzimi epatici, funzionalità renale, marker tumorali – e di altrettanti referti da consegnare ai pazienti e ai medici generali, chiamati a svolgere un ruolo primario. La metà dei soggetti ha subìto un’esposizione “importante”, quindi prelievi e osservazione dovranno essere protratti per un minimo di cinque anni. L’intero materiale raccolto confluirà in un database centrale sottoposto all’analisi del Servizio epidemiologico regionale e di un gruppo di esperti dell’Iss. Non sarà un impegno semplice né breve. I costi? Per il primo anno ipotizziamo una spesa di circa 15 milioni».
Accusata da più parti, l’azienda chimica Miteni di Trissino, nega responsabilità in questo disastro ambientale. Lei che ne pensa?
«Non sono un investigatore, da cittadino spero che la magistratura di Vicenza accerti al più presto la verità. Osservo soltanto che l’Arpav, nei suoi atti ufficiali, non ha avuto dubbi nell’indicare lo stabilimento in questione come fonte dell’inquinamento, tanto da avergli imposto una serie di limitazioni e controlli».
Il Mattino di Padova – 26 aprile 2016