La Stampa. Tra pensionamenti non compensati dai nuovi arrivati, fughe all’estero e auto-licenziamenti, negli ultimi dieci anni dal servizio sanitario nazionale sono scomparsi 30 mila dipendenti. E senza assumere 40 mila medici e infermieri il nuovo Pnrr per la sanità rimarrà sulla carta, trasformando in scatole vuote quegli ospedali e case di comunità che secondo i piani del governo dovrebbero rinforzare la grande assente della pandemia: la sanità territoriale.
A dare i numeri della debacle sono Fadoi e Simi, le due società scientifiche dei medici internisti, quelli che si sono presi sulle spalle negli ospedali il 70% dei ricoverati Covid e che ai partiti chiedono ora investimenti e riforme, per mettere in salvo una sanità che annaspa e ricorre sempre più ai medici «a gettone». Professionisti che preferiscono lavorare a tariffa oraria come liberi professionisti piuttosto che sottoporsi a turni massacranti nelle vesti di dipendenti mal retribuiti. E più aumenta il fabbisogno di medici, più il gettone diventa d’oro. Solo pochi mesi fa Simeu, la società dei medici di emergenza e urgenza, indicava in 90 euro l’ora la tariffa massima per un camice bianco in affitto. Questi giorni in Veneto si è arrivati ad offrirne 120 ad anestesisti e rianimatori. Il doppio dei 60 euri lordi, 40 netti, percepiti da un dipendente per un’ora di straordinario. E così le fila dei «gettonisti» si ingrossano. Secondo Simeu a lavorare a chiamata in Asl e ospedali sono oramai almeno in 15mila, che erogano 18 milioni di prestazioni l’anno. Considerando che i dottori dipendenti sono 112 mila, più di uno su dieci è «in affitto». Non il massimo per la sicurezza dei pazienti. Questo perché «in larga parte dei casi si tratta di giovani non specializzati», spiega il presidente di Simeu, Fabio De Iaco. Per il quale «alcune cooperative potrebbero essere addirittura illegali, perché configurerebbero il reato di intermediazione di mano d’opera. Salvo non venga loro affidato un intero ramo d’azienda, come un pronto soccorso o la gestione dei codici bianchi».
I medici dei pronto soccorso e dell’emergenza-urgenza sono comunque contrari a quest’uso indiscriminato dei medici «in affitto». «Innanzitutto perché spesso non hanno una professionalità adeguata a garantire l’assistenza necessaria ai pazienti e il loro costo rischia di mandare in default le aziende. Infine non conoscono l’ospedale, la sua organizzazione, i colleghi con i quali bisogna lavorare in team», afferma De Iaco. «Ma se i bandi vanno deserti, non si registrano disponibilità e lo stesso mercato del lavoro sanitario presenta carenze al momento incolmabili, cosa facciamo? Tagliamo o chiudiamo servizi? Lo ribadisco, è esattamente ciò che in Emilia-Romagna non facciamo né faremo», afferma senza giri di parole l’assessore emiliano alla Salute Raffaele Donini, coordinatore per la sanità delle altre Regioni, che a guardare i numeri forniti dai medici di emergenza e urgenza sembrano essere sulla stessa lunghezza d’onda. Tanto che, a eccezione di Abruzzo, Sicilia, Calabria, Basilicata, Alto Adige e la piccola Valle d’Aosta, in tutte le altre 15 regioni si fa ricorso ai medici a chiamata. Con contratti d’appalto che vanno da qualche centinaio di migliaia a uno-due milioni di euro per ciascun ospedale che vi fa ricorso. In Piemonte a chiamarli è il 50% dei nosocomi, in Veneto il 70%, in Liguria il 60% e in Toscana il 50%, ma in Friuli Venezia Giulia, Marche e Molise non c’è ospedale dove non siano presenti. In Molise si è andati a pescarli fino in Venezuela, mentre in Trentino ci si è limitati a chiedere una mano ai più vicini dottori calabresi. Che non si sono fatti scoraggiare dai mille e passa chilometri di distanza, perché con tre notti ci si mette in tasca lo stipendio che un medico dipendente incassa in un mese. Turni festivi e notturni compresi.
Tra i gettonisti ci sono battitori liberi, ma la maggior parte di loro è inquadrata in cooperative. «Ma quando ci si rivolge a loro non sappiamo poi se ci si presenti un pensionato piuttosto che un neolaureato, che vengono poi mandati in reparti dove si devono affrontare criticità importanti, come nel caso di pronto soccorso, rianimazioni e pediatrie», spiega Marco Busato, infermiere e sindacalista della Fp Cgil. «In vista delle elezioni chiediamo ai partiti di affrontare seriamente il tema della sanità, uscito dai radar del dibattito come se il Covid fosse un lontano ricordo», è l’appello dei medici internisti. Finora inascoltato, per la felicità di chi sulle carenze di organico ha fatto la sua fortuna. —