I consiglieri continueranno ad andare in pensione a 60 anni con minimi tagli e senza subire nessun divieto di cumulo con altri assegni. Mani libere anche sui soldi ai partiti
Restano, seppur con mini tagli, i vitalizi a 60 anni per gli ex consiglieri regionali; niente divieto di cumulo con altre «pensioni», come quella da parlamentare; e mani libere sui soldi ai gruppi dei partiti. Se non è un clamoroso bluff, poco ci manca. Quando si tratta di rinunciare ai quattrini, i vertici delle regioni italiane sono veri e propri professionisti nelle operazioni «resistenza». Gli scandali e le inchieste nel Lazio e in Piemonte degli scorsi anni, nonché la più recente bufera cagionata da «Rimborsopoli», non hanno scalfito i politici regionali. E così, ieri, l’accordo (solo) politico raggiunto a Roma dai governatori lascia intatti gli assegni e, soprattutto, lascia intatta la possibilità di incassare contemporaneamente un vitalizio regionale e uno da parlamentare nazionale.
Di qui, il tentativo di «vendere» ai media la cura dimagrante. In effetti ieri è stato deciso di ridurre per tre anni i vitalizi, stabilendo percentuali che variano secondo la loro entità. L’ordine del giorno approvato nella plenaria presieduta dal governatore dell’Umbria, Eros Brega, spiega che «tenuto conto della necessitò di rivedere l’entità del diritto secondo criteri di temporaneità, ragionevolezza e proporzionalità rispetto alle finalità di contenimento della spesa pubblica e alle esigenze di bilancio» scatta la riduzione del 6 per cento fino a 1.500 euro, del 9% fino a 3.500, del 12 per cento fino a 6.000 e del 15 per cento oltre. Calcolatrice alla mano, una sorta di «obolo» per tenere a bada le polemiche. E in ogni caso l’ordine del giorni è un atto politico che non vincola in alcun modo le regioni, la cui autonomia è tutelata dalla Carta costituzionale. Chissà se qualcuno brandirà la Legge fondamentale dello Stato per aggirare il giro di vite.
Va detto, per chiarezza, che l’assegno è stato già abolito in 10 regioni: Trentino, Lazio, Lombardia, Molise, Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Abruzzo e Piemonte; lo sarà, a breve, anche in Calabria e in Emilia Romagna, dove si andrà al voto nelle prossime settimane. E in ogni caso dalla primavera 2015, quando si voterà in tutti gli altri «enti», sarà definitivamente cancellato in tutta Italia. Tuttavia, resta il problema dei vitalizi maturati dai consiglieri delle legislature passate: si tratta di circa 3.200 «pensioni» che assorbono 170 milioni di euro. E su queste è scattata la resistenza. E c’è resistenza anche sulla possibilità di incassare l’assegno a partire dai 60 anni (ma con più di una legislatura) e non a 65 (regola generale). Anche se per «andare in pensione» con cinque anni di anticipo si dovrà accettare una decurtazione dell’assegno. Alla fine della giostra, comunque, non è affatto male (per chi incassa).
«Oggi abbiamo deliberato all’unanimità un atto che andava fatto. L’assemblea dei consigli regionali preparerà nel merito un articolato che poi ogni regione dovrà approvare. Auspico che le regioni che vanno a votare in primavera adottino la legge prima di andare voto» ha commentato Brega. Il suo «auspicio» tradisce la sostanziale inutilità dell’atto approvato ieri. I governatori hanno promesso che entro l’anno si adegueranno, ma non hanno alcun obbligo formale.
E poi c’è la questione dei finanziamenti ai cosiddetti gruppi consiliari, cioè ai partiti. La questione ruota attorno ai rimborsi spese, finiti nel mirino della Corte dei conti. Ieri la lobby dei governatori dovrebbe aver approvato un duro documento per attaccare la magistratura contabile. Obiettivo è rivendicare l’autonomia e il pieno rispetto delle norme, nazionali e locali. Semaforo verde, poi, a una proposta volta a correggere una legge sui rimborsi. In questo caso, obiettivo è ampliare le possibilità di spesa dei consiglieri regionali e, nello specifico, dei gruppi. Le regole attuali prevedono che «ogni spesa deve essere espressamente riconducibile all’attività istituzionale» mentre l’emendamento suggerito dai governatori amplia la portata dei rimborsi facendo riferimento, in via assai più generica, a «funzioni istituzionali e politiche affidate al gruppo». Non è una disputa tra linguisti. L’inserimento della parola «politiche» stravolge il senso dei rimborsi: financo per le spese relative a una riunione di partito, secondo alcune interpretazioni generose, potrebbe in futuro essere chiesto un rimborso alla regione. L’ennesima beffa per il contribuente.
Il commento. Vitalizi e soldi ai partiti. Il bluff delle Regioni per tenersi tutti i privilegi
di Maurizio Belpietro. Negli anni la busta paga di chi fa parte dei parlamentini regionali è cresciuta senza nessuna relazione con i risultati lavorativi e con il carovita. E nonostante gli ultimi scandali non sta cambiando nulla
Da quando esistono, l’unica autonomia che le Regioni sono riuscite ad assicurare è quella dello stipendio dei propri consiglieri da qualsiasi criterio di economicità. Nel corso degli anni la busta paga dei politici che fanno parte dei parlamentini regionali è infatti cresciuta senza nessuna relazione con le prestazioni lavorative e nemmeno con il rincaro della vita. Per cui oggi chi esercita il mestiere di rappresentante del popolo nel Lazio o in Sicilia guadagna come se fosse l’amministratore delegato di una media azienda, ma a differenza del dirigente non deve faticare più di quarant’anni per assicurarsi un futuro dignitoso al momento della pensione. È sufficiente che rimanga in carica cinque anni per garantirsi un vitalizio e per averlo non è neppure necessario che attenda il compimento dei 65 anni d’età, come accade a quasi tutti gli italiani.
Questi ed altri privilegi sono noti da tempo e da tempo – almeno da quando esplose lo scandalo dei rimborsi spese di Franco Fiorito (…) (…) e di Vincenzo Maruccio – si parla della loro eliminazione, ma purtroppo, nonostante le promesse, i consigli regionali sono restii a dare un taglio alle generose erogazioni. Insomma, parole tante, fatti pochi. Così succede che anche l’attesa conferenza dei presidenti dei consigli si sia conclusa ieri con un nulla di fatto, demandando le decisioni ai parlamentini, i quali ovviamente dovranno decidere se applicare le misure di contenimento dei costi oppure no. Diciamo subito, vista l’aria che tira, che la riduzione semmai ci sarà non potrà che essere simbolica. Si parla di un 5 per cento di contributo di solidarietà e di un innalzamento dell’età pensionabile per ottenere il vitalizio. Di certo non si metterà mano alle situazioni più scandalose che hanno permesso a molti consiglieri regionali di ottenere la pensione a 50 anni o, come nel caso di una ex consigliera della Sardegna, di incassare 5.100 euro netti al mese all’età di 41 anni. Per loro infatti vale il principio del diritto acquisito e dunque gli italiani si dovranno rassegnare a continuare a pagare 170 milioni per i 3200 vitalizi erogati complessivamente dalle Regioni. A sentire le indiscrezioni, i tagli non riguarderanno neppure la possibilità di cumulare più pensioni pubbliche, cioè di avere un vitalizio dalla Regione e un altro dal Parlamento, gravando due volte sulle casse statali nonostante la vita lavorativa sia una sola.
Ma anche il contributo di solidarietà e l’innalzamento dell’età pensionabile – cioè le misure minime che si vorrebbero varare – sono tutt’altro che scontati, perché, come abbiamo visto, le Regioni sono autonome e dunque non può essere il governo a decidere per loro, ma sono loro stesse a dover deliberare. E siccome non è facile che il cappone decida di saltare in pentola per farsi cucinare a Natale, è assai probabile che anche le misure minime subiranno l’iter massimo, così da consentire ai politici interessati di beneficiare dei privilegi il più a lungo possibile e di far valere le vecchie norme. Del resto, i consigli regionali hanno già manifestato una certa insofferenza di fronte alle pressioni dell’opinione pubblica e della Corte dei conti, reclamando indipendenza per quel che riguarda le loro spese. Tanto da accusare i magistrati contabili che fanno le pulci ai loro bilanci di “attacco sistemico”, paventando addirittura uno scontro istituzionale. In pratica, il grande piano di risparmio che doveva ridurre i costi della politica rischia di essere una presa in giro, limitandosi a tagliare pochi spiccioli.
In fondo questo è ciò che è successo con le Province, che dovevano sparire ma che invece sono riapparse con un altro nome. Cancellati i consigli provinciali si sono inventati i consigli metropolitani, organismi che pur non essendo a carico del contribuente (chi ne fa parte in teoria non dovrebbe essere pagato) si sono subito preoccupati di chiedere soldi alle rispettive Regioni, così da assicurarsi una parte dell’Irpef versato dagli italiani. Perché un ente che doveva sparire e trasferire ad altri le proprie competenze debba rivendicare per sé una percentuale delle tasse pagate dagli italiani è un mistero, ma soprattutto è preoccupante, perché ciò a cui le regioni saranno costrette a rinunciare verrà ripreso dalle stesse bussando alla porta di chi in quelle regioni vive. Per altro sui bollettini della Tari che diversi comuni stanno spedendo in questi giorni, insieme con la quota da pagare per lo smaltimento dei rifiuti è indicata anche un’addizionale da versare alle Province, le quali incassano anche da morte.
Non è finita: il Cnel, cioè il consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, organismo inutile che dovrebbe essere soppresso con la riforma del Senato, in attesa di sparire ha deciso di far apparire nuove poltrone, da assegnarsi a sindacalisti e trombati vari. Anche in questo caso naturalmente facendo valere la propria autonomia: dal buon senso oltre che da pudore.
Libero – 11 ottobre 2014