di CLAUDIO MAGRIS. In una sua celebre poesia, Umberto Saba, a proposito della vita, scrive che gli animali «ne dicono il fondo». Il verso del grande poeta sembra suggerire che gli uomini abbiano in qualche modo perso o forse voluto perdere la capacità di dire, e prima ancora di vedere, quel fondo oscuro, al di qua o aldilà del bene e del male e di qualsiasi sistemazione e spiegazione filosofica.
Forse lo hanno perduto per poter sopravvivere; il dominio — esercitato, almeno finora, dal genere umano sulla terra e sull’esistenza — non può permettersi di fissare l’orrore e la morte; non a caso gli eroi tragici, che ne fanno o sono costretti a farne esperienza radicale, non dominano l’esistenza ma ne vengono travolti.
«Gli occhi dell’animale morente — scrive Rossana Rossanda — hanno uno stupore insostenibile». Doppio stupore: quello dell’animale che probabilmente non può rendersi ragione della sua fine e quello dell’uomo che lo scorge negli occhi dell’animale stesso, venendone sconvolto; sconvolto dal non capire e sconvolto dalla vaga intuizione che, se lo capisse veramente, ne sarebbe sconvolto ancor di più. A volte si ha l’impressione che entrare nella testa di un animale sarebbe, per quel che riguarda la conoscenza, non meno conturbante e illuminante che entrare nella mente di Dio o nella fucina stessa dell’universo, vedendola dal suo interno. Quando Jackson, il mio cane, mi fissa — a seconda dei casi, tenero, attonito, perplesso, malinconico, perduto — capisco che la vita (e in quel caso la mia stessa persona) gli si presentano in un aspetto, non necessariamente secondario, che mi resterà radicalmente ignoto. Non si tratta di sopravvalutare l’intelligenza degli animali e men che meno di umanizzarli con smancerie sentimentaleggianti, bensì della sensazione di mondi che contengono, a loro modo ossia in un modo a noi ignoto, un’immagine del reale e dunque il reale stesso.
Si conoscono tante e sempre più cose sull’intelligenza degli animali, sulle loro abitudini, sui loro comportamenti, sulla loro struttura nervosa, ma è impossibile sapere come vedono il mondo e dunque chi sono — cosa del resto difficile per ogni individuo, anche nei confronti degli altri individui e pure di sé stesso. Quel vitello dagli occhi «larghi e bagnati» che, in un passo memorabile della Storia di Elsa Morante, ha una «prescienza oscura» della sua sorte, è un’immagine indelebile della — parziale ma fondamentale — comunanza di destino che ci lega a questi nostri cugini e non solo perché, come dice l’Ecclesiaste, «chi può sapere se lo spirito degli uomini sale veramente in alto e lo spirito degli animali scende sotto terra?». Si rivendicano sempre più diritti per gli animali; si mostra attenzione — talora persino in forme fanatiche — alla loro sofferenza, una parte della quale è inevitabile per la nostra sopravvivenza ma che bisogna cercare almeno di lenire e limitare in ogni modo.
Ci sono grandi racconti che hanno cercato di entrare nel mondo animale, specialmente ma non solo in quello dei cani. Ma il mondo animale e soprattutto la psiche animale restano un mistero fra i più grandi. Per aggirare questo mistero, si è fatto ricorso molto spesso alla favola umanizzante, trasformando l’animale in un simbolo universale di virtù, vizi e modalità dell’essere umano.
Talvolta il valore simbolico di un animale è univoco, talora invece ambivalente e anche contraddittorio. L’edizione di Frate Indovino , l’almanacco dei francescani per il 2012, era dedicata all’«elogio degli asinelli ovvero la riscossa degli ultimi». Se l’asino è un animale che merita una riabilitazione, questo vale ancora di più nel caso del maiale, come dimostra Roberto Finzi in questo godibilissimo libro (L’onesto porco , Bompiani). Roberto Finzi è un rigoroso e originale studioso, alla cui penna felice si devono fondamentali contributi scientifici di storia economica, ricerche di storia del clima e di storia dell’alimentazione e studi vari che spaziano nei campi più disparati, da Turgot e Quesnay e la nascita del pensiero economico moderno; dalla realtà agraria con gli scioperi che hanno contrassegnato la sua storia a diversi aspetti dell’ebraismo e della cosiddetta «questione ebraica», dalle leggi razziali alle loro ripercussioni nella vita accademica italiana. Gli si devono contributi fondamentali su Adam Smith e la figura dell’economista e la sua degenerazione.
A lui si deve, tra le tante cose, un interessantissimo saggio su Ettore Majorana, forse il più bel libro scritto sull’argomento; senza abbandonarsi a impossibili e indimostrabili illazioni sulla fine di Majorana, Finzi mette in luce un aspetto trascurato nella vasta bibliografia dedicata al grandissimo scienziato. Egli sottolinea come Majorana, considerato uno scienziato dal valore altissimo da tutti i suoi grandi colleghi e compagni di ricerca che vedevano in lui un maestro, venerato sinché fa il fisico, lo scienziato d’eccezione, nel momento in cui si pone il problema del senso di ciò che egli e i suoi colleghi stanno facendo, il problema del senso della scienza e della ricerca, viene immediatamente bollato dalla comunità scientifica, intollerante come la Chiesa ai tempi di Galileo, e considerato uno squilibrato ovvero affetto da crisi mistica, che per gli scienziati di quel genere è la stessa cosa. È un saggio che reca un contributo fondamentale sulla logica e il procedere della scienza, che regola e determina sempre più il nostro destino ma sembra talora poco capace di affrontare l’interrogativo sul senso e la direzione di questo nostro destino.
Questo saggio , questa «storia di una diffamazione» del porco sembra, e in parte è, un garbato e piacevolissimo divertissement , una gustosa ricerca che ha tutto il sapore dell’erudizione unito a una poesia della carnalità, a un senso della liberalità del vivere, che comprende a pari titolo il piacere e il grato rispetto per l’oggetto di questo piacere. Parlando con amabile autoironia in terza persona di sé, Roberto Finzi si dichiara «soddisfatto da buon bolognese… non poco della carne di maiale, che mai capì perché mai fosse considerato, in particolare dal ramo paterno dei suoi antenati, animale immondo».
Il saggio spazia, con la discrezione del gran signore che nasconde più che rivelare la sua cultura, dalla classicità, con le sue tradizioni e i suoi miti, alla condizione contemporanea, con le sue abitudini e il suo lessico, che spesso diventa un lessico dell’ingiuria nei confronti di tutti i soccombenti, umani e anche, come in questo caso, non umani. Dopo aver chiarito la distinzione fra porco e maiale, che a rigore significa «porco castrato» anche se viene usato come sinonimo, Finzi affronta ad esempio subito il problema delle ragioni che inducono a numerose distinzioni — in varie lingue di cui son riportati vari esempi — fra la parola che indica l’animale e la parola che indica l’animale divenuto cibo, osservando come ciò possa indurre a pensare «a una sorta di disagio dell’uomo quando uccide gli animali di grossa taglia, cui, di conseguenza, viene cambiato nome dopo essere stati macellati». Il saggio si sofferma sui miti, a cominciare da quello di Circe che trasforma gli uomini in maiali. Finzi elenca tutto un vocabolario di ingiurie d’ogni genere che vengono rovesciate sul porco.
In questa godibile e apparentemente leggera scorribanda compaiono protagonisti della cultura universale, da Giordano Bruno a Tito Livio, dai novellieri del Trecento alla letteratura di vari Paesi e vari secoli. Alla diffamazione che certo tiene campo — basta pensare alle ingiurie nei confronti delle donne — si unisce ogni tanto una rivendicazione: ad esempio dell’intelligenza del maiale, documentata e testimoniata da vari episodi e da varie ricerche. Ma soprattutto rivendicazione del fiero e selvaggio valore, che apparenta il verro, il porco maschio non castrato, al cinghiale, nobile animale di cui il mito e tanti racconti hanno testimoniato la forza, come risulta dai frequenti paragoni e dalla similitudine nei poemi epici cavallereschi che lo mostra pronto ad affrontare il re della foresta, il leone. Ho sempre amato molto gli animali e, non so perché, il maiale — insieme al cane, alla foca, al porcellino d’India, all’orso — è stato uno dei miei animali preferiti. Mi sarebbe molto piaciuto averne uno, almeno uno piccolo, così come sognavo di avere una casa in riva al mare e una foca che si comportasse come un cane, nuotando e pescando liberamente in mare e poi venendo sulla spiaggia o in casa da me. Ho avuto due porcellini d’India, Buffetto I e Buffetto II, e ho un cane, Jackson; non credo che potrò mai avere un maiale, ma mi dispiace un poco.
Mi è rimasto profondamente impresso il racconto di un capraro nell’agro campano negli anni Cinquanta, quando, da ragazzino, giravo con mio padre per la Campania, cercando molossi ovvero mastini napoletani, che interessavano mio padre e di cui egli aveva anche scritto, molossi di cui proprio a quell’epoca si stava, più che ricostruendo, definendo la razza. E ricordo il vivacissimo racconto di un capraro, nel suo dialetto non sempre comprensibile ma incredibilmente vitale e sanguigno, di un feroce combattimento che si era scatenato, nel suo podere, fra un molosso e un verro. Sembrava di ascoltare un cantastorie medioevale che raccontasse le gesta di paladini e saraceni e la descrizione, rozza ma possente, di quei due animali — in particolare, delle zanne e del roco ansare del verro — non l’ho dimenticata più. Narrazione non piacevole ma epica o meglio tragica, come è tragica la vita e in particolare la vita animale, che sembra creata soltanto per uccidere o essere uccisa. Storia in cui il verro fa la parte di un eroe omerico, coperto di sangue e di polvere davanti alla morte, alla possibilità di darla o di riceverla.
Come ogni diffamazione, pure quella del porco, ci dice questo amabile, lieve e profondo libro di Roberto Finzi, è una menzogna, un’ingiustizia. Non mancano gli elogi ammirati, come quello di William Henry Hudson, che loda l’intelligenza del maiale, ma prevale la diffamazione, anche se, come spesso avviene nell’allegoria, a essere in realtà diffamato, sotto le vesti suine, è spesso in realtà l’uomo.
Corriere della Sera – 30 marzo 2014