Gianluca Di Feo, da Repubblica. «Le indagini migliori sono quelle che si concludono con sentenze che trovano spazio nei repertori di giurisprudenza, non quelle che finiscono sulle prime pagine dei giornali». Un quarto di secolo fa Paolo Ielo era il più giovane pm del pool Mani Pulite.
Adesso è il procuratore aggiunto di Roma, che al fianco di Giuseppe Pignatone coordina tutte le inchieste sulla corruzione. Assieme ai colleghi porta avanti l’accusa nel processo di Mafia Capitale, ma evita di entrare nel merito del dibattimento e delle polemiche innescate di recente dalle richieste di archiviazione per numerosi indagati.
«A volte ci contestano di non fare questa o quella richiesta di processo. Ma chi muove le indagini deve avere per primo la capacità di capire dove può arrivare con quello che ha in mano. Inchieste che portino a processi azzardati sono un danno per tutti: per le procure che le propongono, per gli imputati e per la collettività perché c’è una perdita di credibilità della giustizia».
In questi giorni, dopo un intervento di Giuliano Pisapia su “Repubblica”, si è tornati a discutere della centralità del processo.
«Le indagini di Mani Pulite sono tutte arrivate a sentenza, con un livello altissimo di condanne a parte i casi di prescrizione. L’idea del processo “all’azzeccagarbugli” che non finisce mai va abbandonata: è una pena per chi è innocente ed è una sinecura immeritata per chi è colpevole. Perché così troppi dibattimenti muoiono per la prescrizione».
Quanto è lontana la corruzione della Milano di Mani Pulite da quella romana dei nuovi mazzettari?
«Milano all’epoca era un laboratorio avanzato in cui si sperimentava una serie di forme corruttive. Finiva la prassi della quota degli appalti riservata alle cooperative e queste cominciavano a sedersi al tavolo delle tangenti, pagando come gli altri imprenditori. Un fenomeno che comincia a metà degli anni ‘80 a Milano e poi è stato in qualche modo esportato nel resto d’Italia. Certo, alcune indagini romane sono state una sorta di “ritorno al futuro”: mi sono trovato davanti agli stessi meccanismi che avevo vissuto negli anni di Tangentopoli. Di sicuro quello che mettemmo in luce a Milano era un sistema organizzato, adesso invece c’è una situazione più balcanizzata. E per altri versi si è imposto il tema del rapporto tra istituzioni e forme di criminalità organizzata».
Che nell’ultimo periodo pare una costante nazionale, dalle vostre indagini romane a quelle sull’Expo… «A Milano nel 1992 coglievi molto da lontano la possibilità che ci fosse intersezione tra fenomeni di corruzione e criminalità organizzata, la coglievi soprattutto sui modi con cui il denaro circolava. Allora come oggi i flussi illeciti, quelli che muovono il denaro della droga, del riciclaggio, dell’evasione e delle tangenti girano allo stesso modo. Ma adesso i boss si sono resi conto che conviene molto di più usare la corruzione. Perché comporta meno rischi, crea minore allarme e tutto sommato costa di meno».
E queste tangenti diventate pure mafiose finiscono per condizionare la politica?
«In Mani Pulite il tema centrale era il finanziamento dei partiti, mentre ora in prospettiva c’è un problema di selezione della classe dirigente. La corruzione porta con sé il rischio concreto di selezionare la classe dirigente pubblica in funzione della sua capacità di prendere mazzette e distribuire in modo distorto le risorse; dall’altro seleziona i soggetti imprenditoriali non in base alla capacità di lavorare bene ma di quella di pagare tangenti. Inevitabilmente, in un arco di tempo breve o lungo, avremo un Paese affidato a soggetti che non sanno produrre e dirigenti pubblici che non sanno amministrare: una selezione al ribasso».
Rispetto a Tangentopoli ora sono state introdotte regole e strutture per prevenire la corruzione. Come funziona il rapporto tra prevenzione e repressione?
«Da bambino capitava che qualcuno chiedesse: vuoi bene di più al papà o alla mamma? E’ una falsa domanda: prevenzione e repressione sono due momenti diversi con funzionalità diverse, che si potenziano reciprocamente. L’Anac presieduta da Raffaele Cantone sta facendo un ottimo lavoro. Ha messo a punto tecniche di analisi degli appalti per evidenziare alcuni elementi, che non necessariamente indicano la corruzione ma permettono di concentrare l’attenzione sulle anomalie. Ad esempio se una stazione appaltante non fa ricorso alla centrale di committenza, se ci sono troppi affidamenti diretti e varianti: tutto può essere valutato grazie a una formula elaborata dall’Anac, una sorta di algoritmo degli appalti sospetti».
Oggi le indagini sono più difficili rispetto al 1992?
«La balcanizzazione delle centrali di corruzione le rende più complesse. Siamo abbastanza bravi nella ricostruzione dei flussi finanziari. Ma se il denaro parte dall’Italia, va in Svizzera, poi a Hong Kong e da lì alle Cayman per poi rientrare, mi serve tempo per individuare tutte le tappe. Mentre fai le indagini, però, senti l’orologio che batte inesorabile e quando trovi i soldi e li sequestri, hai già consumato buona parte del tempo disponibile prima della prescrizione. Le intercettazioni telefoniche sono strumenti fondamentali ma l’idea che l’indagine si possa fare solo con intercettazioni a strascico – fuori dai casi di mafia – è sbagliata dal punto di vista investigativo, illegittima dal punto di vista delle regole di diritto e sostanzialmente inutile per chi le indagini le fa. E poi c’è il problema del ritorno al contante».
Anche ai tempi di Mani Pulite circolavano tante valigette piene di banconote…
«Ricordo che un imprenditore arrestato ci raccontò che usava sempre valigette dello stesso modello. Quando consegnava le mazzette, nessuno le restituiva. Una sola volta presero i soldi e riconsegnarono il contenitore. Lui, stupito, chiese come mai. Gli risposero: “Abbiamo una stanza piena di valigette, non sappiamo dove metterle…”. Ma nella vecchia Tangentopoli i finanziamenti ai partiti avvenivano soprattutto con bonifici tra conti svizzeri. Oggi invece c’è sempre un ultimo miglio in cui il denaro finisce in una valigetta. E durante le perquisizioni trovi funzionari che hanno la casa piena di mazzette cash: in un caso 600 mila euro, nascosti nella scrivania, nel comò, persino negli armadi».
Repubblica – 26 ottobre 2016