di Marina Crisafi – Prima precari con contratti a progetto che celavano un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato, oppure nel migliore dei casi co.co.co. sottopagati, e ora “rottamati”. È questo il rischio dei 200mila lavoratori che non potranno più vedere rinnovati i contratti a progetto o di collaborazione coordinata e continuativa oggi in corso. Come dire oltre il danno la beffa.
Perché, se le parole del premier sono diventate già un refrain che spopola su tutti i media, paventando la certezza che “200mila nostri connazionali nella ridefinizione del lavoro parasubordinato passeranno presto da co.co.co. e co.co.pro. a lavori a tempo indeterminato”, capendo per la prima volta il significato di “parole come mutuo, ferie, buonuscita”, questa certezza non esiste.
Non per voler smorzare gli entusiasmi della maggioranza di Governo, ma il nuovo decreto legislativo sul riordino delle tipologie contrattuali approvato venerdì scorso, vieta dall’1 gennaio 2016 il ricorso alle forme contrattuali a progetto e coordinate e continuative (art. 47 d.lgs.), prevedendo che il contratto di lavoro subordinato sia la regola e tutto il resto (contratti a termine, di somministrazione, part-time, apprendistato, ecc.) l’eccezione, e consentendo tale “passaggio” anche ai contratti in corso (dall’entrata in vigore del decreto al 31 dicembre 2015), previa rinuncia (tra le altre condizioni) da parte dei lavoratori a “possibili pretese riguardanti la qualificazione del pregresso rapporto di lavoro” (il che tradotto, significa che il lavoratore a progetto o co.co.co. che riceve una proposta di contratto a tempo indeterminato, pur di non perderla, rinuncerà a far valere i propri diritti chiedendo il riconoscimento di quanto gli spetta per avere effettivamente lavorato come dipendente, magari per anni).
Ora, secondo il Governo tutte le aziende si precipiteranno ad assumere, anche per via degli incentivi garantiti con la legge di Stabilità (taglio Irap, zero contributi per tre anni, ecc.).
Ma chi lo assicura?
In altre parole, chi vieterà ad un’azienda che oggi ha ad esempio 300 lavoratori a progetto, alla scadenza dei contratti, a non mandare a casa tutti o una parte degli stessi, senza assumere a tempo indeterminato?
Parliamoci chiaro, il contratto a tempo indeterminato con le numerose agevolazioni introdotte e la possibilità dei licenziamenti “facili” è certamente più conveniente rispetto al passato, ma comporta comunque dei costi, senz’altro maggiori rispetto a un contratto a progetto che può essere portato avanti a costo pressoché zero.
Se poi consideriamo che dietro a un contratto di tale tipo si nasconde una vera e propria attività subordinata, con tanto di rispetto di orari e obiettivi aziendali, non c’è dubbio che l’azienda può trovarlo molto più conveniente.
Quindi, ricapitolando, il fantomatico datore di lavoro che ha 300 lavoratori a progetto, che di fatto lavorano in azienda rispettando gli stessi orari di lavoro dei dipendenti, garantendo (spesso) una produttività elevata, per via sia del “timore” di non vedere rinnovato il contratto alla scadenza, sia per le “premialità” in genere abbinate a tale forma contrattuale (basta pensare ai call center, luogo deputato per eccellenza, al ricorso ai contratti a progetto, dove sono previsti meccanismi premianti al raggiungimento di determinate soglie produttive), il tutto a costi notevolmente bassi, perché dovrebbe assumere tutti a tempo indeterminato?
Allora, è plausibile che lo stesso datore di lavoro, facendo due conti, decida di coprire il fabbisogno aziendale minimo, stabilizzando alla scadenza dei contratti precari, circa il 50% dei lavoratori, mandando a casa tutti gli altri.
Ciò significa, se la matematica non è un’opinione, che di 300 lavoratori, 150 saranno presto disoccupati.
Il che rapportato ai grandi numeri dell’esecutivo, vorrebbe dire che i 200mila lavoratori che dovrebbero trasformarsi in dipendenti a tempo indeterminato, corrono il rischio di vedere rottamati loro stessi e non il contratto. E senza godere degli incentivi della rottamazione, come avviene in campo automobilistico!
Così, coloro che avevano un “futuro incerto” come cantava in un vecchio motivo Tonino Carotone, si ritroverebbero a non averne uno.
Ma per tutti costoro una speranza c’è, perché il Governo ha pensato proprio a tutto!
Infatti, i futuri rottamati potranno pur sempre ricorrere alla Dis-Coll, ovvero all’indennità di disoccupazione introdotta dal maggio prossimo per i collaboratori (con almeno tre mesi di contribuzione) che si ritrovano senza collaborazioni.
Una consolazione, magra, ma pur sempre una consolazione.
(www.StudioCataldi.it) – 22 febbraio 2015