Roberto Giovannini. Sembra quasi sorpreso per tanta polemica il deputato democratico Marco Meloni, l’autore dell’emendamento che inserirebbe il «peso» dell’ateneo in cui ci si è laureati tra i fattori da considerare nei concorsi pubblici.
«La mia originaria proposta prevedeva semplicemente l’abolizione del voto minimo di laurea quale filtro per la partecipazione ai concorsi pubblici», poi è stato il governo a riformulare l’emendamento, dice con un filo di preoccupazione. E ora, dice Meloni, «credo sia opportuno un supplemento di riflessione».
La parola spetta dunque al governo, che finora si è ben guardato dall’intervenire su una polemica tanto rovente.
Certo è che l’emendamento ha suscitato davvero un putiferio di proteste. Solo Forza Italia ha difeso pubblicamente la progettata rivoluzione per i concorsi pubblici. Ieri governo e Partito democratico si sono limitati a ricordare che la riforma della pubblica amministrazione (al cui interno è contenuta questa novità) è una legge delega. Dunque, ci sarà tempo per precisare e migliorare il testo. Ma soprattutto il Pd e il governo fanno sapere che l’intenzione è solo quella di evitare che uno studente, alunno di una università seria e di «manica stretta» quanto ai voti, sia penalizzato rispetto al suo collega che ha studiato in un ateneo dal 110 e lode facile.
Questa, e solo questa – evitare che siano premiati gli studenti che si laureano negli esamifici – era l’intento della riformulazione dell’emendamento Meloni, voluta dal ministro della Pubblica Amministrazione Marianna Madia e dal relatore, il renzianissimo deputato Ernesto Carbone. Negata anche ogni volontà di attenuare o cancellare il valore legale del titolo di laurea. Però il risultato è stato paradossale, dicono in molti: se il criterio da considerare è quello del «valore» dell’università frequentata, comunque misurato, è evidente che chi si laurea in un ateneo «scarso» non avrà alcuna chance rispetto a chi va a studiare in un ateneo «buono». Non casualmente, le prime 15 università sono al Nord. Un giovane povero e meridionale, pur bravissimo, sarebbe dunque condannato, rispetto a chi può permettersi altre scelte.
Tutti o quasi negativi i commenti diffusi ieri. «Se esiste il valore legale del titolo di studio la laurea deve pesare allo stesso modo», dice Stefano Paleari, rettore dell’Università di Bergamo e presidente della Conferenza dei rettori (Crui), Per l’Udu si tratta di una proposta «gravissima, perché determinerà per la prima volta una differenziazione dei titoli di laurea tra le diverse università pubbliche». «Richiediamo la cancellazione di questo emendamento – dichiara Rebecca Ghio, coordinatrice della Rete universitaria nazionale. Per il leader della Flc-Cgil, Mimmo Pantaleo, si tratta di una «scelta classista del governo». Per M5S «è un nuovo colpo mortale che governo e Pd assestano al sistema pubblico d’istruzione, spazzando via definitivamente i principi di uguaglianza e inclusione»; per Sel «se uno ha la fortuna di nascere in una famiglia che se lo può permettere potrà frequentare le università più in voga». Contrario anche Vincenzo Garofalo, di Ncd. L’unico via libera arriva da Elena Centemero, responsabile scuola e università di Forza Italia: «Qualsiasi iniziativa che, nel campo dell’istruzione, premi la qualità e valorizzi il merito non può che vedere Forza Italia favorevole».
La Stampa – 4 luglio 2015