Le indagini evidenziano che i reati fiscali sono ormai lo strumento di lavoro di holding mafiose a livello internazionale», dice Antonio Quintavalle Cecere, comandante del Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata della Guardia di finanza.
Che cosa emerge dalle vostre indagini più recenti?
«Oggi ci troviamo di fronte a una criminalità organizzata come una holding, con vari rami d’azienda. Quello militare è relegato ai gruppi minori, spesso in conflitto tra loro per interessi legati alla droga, come la gestione delle piazze di spaccio. I gruppi più strutturati, invece, cercano l’inabissamento. Vogliono rendersi invisibili per non attirare l’attenzione investigativa».
Quali strategie utilizzano?
«Questo processo si è sviluppato parallelamente all’evoluzione tecnologica in campo economico-finanziario. I finanzieri che lavoravano con Falcone, all’inizio degli Anni ’80, analizzavano le girate sugli assegni. Una per una, a mano. Oggi dobbiamo contrastare una struttura estremamente moderna».
Con quali professionalità?
«Quando si supera l’esigenza di acquisire e vendere droga, si reinvestono i profitti mettendo in moto un sistema di faccendieri, imprenditori, funzionari pubblici asserviti. Professionisti che lavorano anche per diversi clan in diverse parti d’Italia e consentono di acquisire fette di mercato illecito in molteplici settori e con disparate modalità. La frontiera più avanzata riguarda le frodi fiscali».
In che modo?
«Attualmente la criminalità organizzata si infiltra nell’economia legale acquisendo vere e proprie imprese, con vari metodi. Quello più invasivo parte dall’estorsione. Quando l’imprenditore non è più in grado di pagare, accetta l’ingresso diretto del sodalizio criminale nella compagine societaria».
Ci sono sistemi meno invasivi?
«Con operazioni finanziarie e reati fiscali. Per esempio fornendo agli imprenditori che dispongono di ingenti proventi in nero, frutto di evasione fiscale, i servizi dedicati per riciclarli facendo perdere le tracce».
Come?
«Il sistema mafioso italiano dispone all’estero di una società A, che stipula un contratto con un’altra impresa B, sempre dell’organizzazione e ubicata in un terzo Paese. Il contratto prevede che l’impresa A paghi alla B una somma in cambio di merce. In realtà la merce non esiste, ma l’impresa B emette fattura».
Quindi una transazione fittizia?
«Non del tutto. Il passaggio di denaro c’è. La società A effettua un bonifico sul conto dell’impresa B. La provvista di questo bonifico deriva dall’imprenditore estraneo all’organizzazione, frutto di evasione fiscale. Ora quei soldi sono “ripuliti” su un conto corrente di una società apparentemente normale in Belgio o Germania. Ma restano poco. L’impresa B fa decine di queste operazioni, finché non trasferisce il denaro in banche collocate in Paesi poco collaborativi».
Che cosa vuol dire poco collaborativi?
«Mentre ai Paesi europei noi possiamo chiedere di fare sopralluoghi e verifiche su queste imprese, che talvolta esistono solo sulla carta, alla frontiera dei paradisi fiscali o della Cina dobbiamo fermarci».
Quindi seguire il denaro non basta?
«Dobbiamo farlo, ma in altro modo. Con le segnalazioni di operazioni sospette, l’incrocio delle banche dati per le anomalie patrimoniali e soprattutto con le intercettazioni sia telefoniche che telematiche».
Sono importanti?
«Fondamentali perché ci fanno scoprire questi meccanismi dall’interno, raccontati dai protagonisti in tempo reale. Per bloccarli prima che sia troppo tardi. Così capita di ascoltare conversazioni cifrate tipo “ti ho portato la macchina con i documenti”. Ma i documenti sono soldi. E infatti troviamo la macchina piena di contanti».
Quando i soldi vanno nei Paesi non collaborativi, siete disarmati?
«L’obiettivo del sequestro è vanificato. Allora proviamo a rivalerci sui beni in Italia. Società, beni immobili e mobili».
Le famose Ferrari e Lamborghini dei boss.
«Non più. Ormai hanno preso contromisure. Le detengono in leasing, il che ci impedisce il sequestro».
In quali settori i sistemi da holding finanziarie e fiscali si diffondono più velocemente?
«Diversi settori. Con diverse variabili. Nell’indagine Petrolmafie il passaggio di carburante c’era. Ma intermediato da società filtro mafiose intestate a prestanome nullatenenti, che non versando l’Iva rivendevano la benzina a prezzo scontato, mettendo fuori mercato i concorrenti».
Di che cifre parliamo?
«In quella inchiesta abbiamo accertato profitti illeciti per 970 milioni di euro. Un imprenditore in difficoltà si era rivolto a un’impresa mafiosa, moltiplicando il giro di affari da 9 a 370 milioni in tre anni».
In quali settori l’evoluzione tecnologica è più evidente?
«Nei giochi, per esempio. La mafia insedia una società di scommesse in un Paese privo di controlli severi come i nostri. Poi si appoggia in modo capillare sul territorio italiano a punti scommesse con regolare licenza. Gli incassi vengono trasferiti all’estero con meccanismi anonimizzati. Bastano un computer e un server da duemila euro».
Ma i clan hanno queste competenze?
«Ingegneri e informatici lavorano per diverse organizzazioni, in diversi territori».
C’è differenza tra Nord e Sud?
«Questione superata. Sono holding mondiali».
Come rientrano i soldi in Italia?
«Nei modi più impensabili. In Sicilia abbiamo scoperto un’azienda di noleggio auto usata per ricevere pagamenti dall’estero, con fatture false a fronte di contratti fittizi per auto inesistenti. Queste “cartiere”, quando non servono più, le ritroviamo nei reati fallimentari, legati a quelli fiscali perché sono imprese che oltre i fornitori non pagano le tasse».
Torniamo al punto di partenza. Imprese “normali”. Fatture false. Reati fiscali.
«È così. Una lotta senza quartiere contro un nemico estremamente sofisticato».
La Stampa