Dalla scoperta del buco dell’ozono sono passati trent’anni. Nel frattempo il pensiero ecologista è diventato di massa, incassando vittorie e sconfitte, fino a entrare un po’ in crisi. E del buco nell’ozono ci siamo dimenticati un po’ tutti. Eppure è ancora lì, bello grande, sopra ai poli. Il paradosso è che la storia di questo eco-allarme e dell’accordo siglato per fronteggiarlo è considerata (a ragione) dagli esperti il più grande successo nella storia delle politiche per l’ambiente. Un esempio da seguire anche per l’emergenza più calda dei nostri giorni: i cambiamenti climatici.
È il 16 maggio del 1985 quando tre ricercatori del «British Antarctic Survey» firmano su Nature l’articolo che rappresenta la pistola fumante nel dibattito sui possibili danni causati all’atmosfera dai clorofluorocarburi (Cfc) contenuti in tanti prodotti industriali.
Joe Farman, Brian Gardiner e Jon Shanklin si sono accorti che ogni primavera si verifica una sostanziosa riduzione della fascia che protegge il pianeta dalle radiazioni ultraviolette. Non usano la parola buco, il primo a farlo è il Washington Post . L’osservazione, comunque, viene confermata dalla Nasa e la comunità internazionale passa tempestivamente all’azione. Le sostanze incriminate vengono messe al bando con il protocollo di Montreal, che entra in vigore nel 1989 e nel corso degli anni viene sottoscritto da tutti i Paesi del mondo.
Rapidità e incisività delle contromisure sono sorprendenti, se confrontate con le lungaggini delle trattative per il protocollo di Kyoto e per l’accordo che dovrà sostituirlo. Come si spiega la differenza e quali lezioni possiamo trarne?
I pareri su questi punti divergono. È stata la politica a perdere coraggio assoggettandosi alle ragioni del mercato, sostiene una delle firme di punta dell’ambientalismo, George Monbiot. «Se il buco fosse stato scoperto oggi, i governi avrebbero aperto tavoli su tavoli e staremmo qui a discutere».
La differenza l’ha fatta la tecnologia, ipotizza lo studioso di politiche ambientali Roger Pielke. Ci sono state industrie chimiche che hanno colto l’occasione per investire nello sviluppo di alternative, anche prima dello studio di Nature , quando la comunità scientifica era ancora divisa. «Immaginate come sarebbe il problema del riscaldamento globale se non ci fossimo arenati in confusi dibattiti. Cosa sarebbe successo se il focus fosse stato subito sulle tecnologie?». Invece la scena è stata occupata dai duelli tra ambientalisti preoccupati (o catastrofisti) e scettici (o negazionisti, dipende dai punti di vista), con i summit a scandire il passare dei decenni.
Nel caso del riscaldamento globale, non basta sostituire l’energia sporca con quella pulita, come abbiamo fatto trovando delle alternative ai Cfc, ribatte l’analista Andrew Simms. «Dobbiamo cambiare le abitudini di consumo incoraggiate nell’età dei combustibili a basso costo». Ma secondo Shanklin, uno degli scopritori del buco, l’insegnamento principale è un altro ancora: per fare grossi danni basta poco tempo, mentre per consentire alla natura di rimediare ne serve molto. «Se l’avessimo capito oggi staremmo più attenti a quello che facciamo all’atmosfera».
L’ultima stima parla di uno strappo pari a 24,1 milioni di chilometri quadrati sull’Antartide, il 9% in meno rispetto al 2000, ma senza progressi sostanziali recenti. Probabilmente dovremo aspettare la seconda metà del secolo perché il buco si chiuda. Come risultato può sembrare modesto, ma l’Unep calcola che eviterà 2 milioni di tumori della pelle l’anno entro il 2030. È una di quelle vittorie che ci permettono di dimenticare i problemi, sostiene Monbiot. «Non siamo fatti per riconoscere le assenze. Non passiamo i giorni a celebrare l’eradicazione del vaiolo».
Anna Meldolesi – Il Corriere della Sera – 21 aprile 2015