La Stampa. Tanto i piccoli allevatori che i pescatori, strangolati ora dal caro-gasolio, non riescono a tenere il passo con la concorrenza delle produzioni su larga scala, che con i loro prezzi low cost la fanno oramai da padrona nel settore zootecnico e dell’ittica. Così gli animali soffrono perché sempre meno liberi di muoversi in terra come nel mare e le loro carni si modificano, non propriamente in meglio per la nostra salute. Perché negli allevamenti-alveari ci si ammala più facilmente, e quindi si fa più ricorso ai medicinali, che inquinano l’ambiente e finiscono poi per essere immagazzinati anche dal nostro organismo. Uno dei rischi maggiori viene dall’uso di antibiotici E anche se la nostra normativa impone sia dato tempo di smaltire gli antibatterici prima di utilizzare carni o altri derivati, resta il fatto che il loro uso estensivo alimenta comunque il fenomeno dell’antibiotico-resistenza, che vede in Italia più che altrove proliferare i super batteri responsabili della morte di migliaia di persone. Tutte cose che dovrebbero imporre un cambio di passo celere nel settore per noi pur sempre strategico della zootecnia.
Dal pastone che ingrassa i vitelli agli antibiotici dentro la bistecca
Il 99,8% dei polli che finiscono sulla nostra tavola provengono da allevamenti intensivi, dove in 20 si dividono si e no un metro quadrato. I vitelli, le cui condizioni di allevamento sono migliorate a partire dal 2005, vengono comunque cresciuti in spazi limitati, dove urine e feci esalano ammoniaca che causa infiammazioni da curare poi con dosi massicce di farmaci.
E la loro dieta è povera di ferro per ottenere una carne più bianca. Le bovine lattifere sono invece super-alimentate per produrre fino a 40 litri di latte al giorno. Quantità che rendono abnormi le loro mammelle, soggette così a mastiti da curare con i farmaci. A fornire un quadro non proprio edificante di come vengono allevati gli animali che ci forniscono poi le loro carni imbottite di medicinali è il report “Dieci anni di zootecnia in Italia”, redatto dall’associazione “Essere animali”.
Per far giungere il prima possibile un peso consistente i bovini vengono alimentati con pastoni ipocalorici, spesso a base di mais ricco di amido, integratori, grassi proteine e una piccola parte di fieno. Questo provoca una malattia denominata acidosi, che può bloccare la ruminazione rendendo gli animali deboli e bisognosi di cure farmacologiche. Tra le quali quelle a base di antibiotici che vanno poi ad aumentare l’antibiotico resistenza che fa oltre 11mila morti solo in Italia. Infine, l’acidosi bovina facilita il passaggio di patogeni dall’animale all’uomo. Pa.Ru. —
Animali curati con antidepressivi: altrimenti si lasciano morire di fame
Su 173 milioni di tonnellate di produzione mondiale di pesce, secondo la Fao, 90 sono garantite dalla pesca (con una parte che si trasforma però in cibo per i pesci allevati), 80 dall’acquacoltura. Un mercato, quello del pesce di allevamento, in continua espansione, perché spinto ora anche dal caro carburante che fa salire i prezzi dei pesci non allevati.
Quelli d’allevamento, però, vivono in condizioni igieniche non ovunque ottimali: l’alimentazione è sempre più a base vegetale, coprendo oramai il 780% del mangime utilizzato contro il 10% di 30 anni fa. «E la ricchezza di fibre moltiplica gli escrementi, 500mila tonnellate l’anno, nei quali si concentrano anche i residui dei medicinali somministrati ai pesci. Perché l’ambiente in cui vivono è insalubre e sovraffollato, paragonabile a quello in cui vivono i polli di batteria e gli animali si ammalano trasmettendosi parassiti l’un con l’altro», spiega la farmacologa Agnese Codignola, autrice di diversi libri sull’alimentazione.
Si calcola che un allevamento ittico su tre sia sovrasfruttato: 40 anni fa erano uno su dieci. E oramai degli oltre 20 chili di pesce che consumiamo in media ogni anno, 11 vengono da acquacoltura. Per tenere a bada pidocchi, alghe e parassiti li impiegano tonnellate di antibiotici, disinfettanti e insetticidi. Persino antidepressivi, per evitare che i pesci si lascino morire non mangiando. Sostanze che finiscono poi in mare aperto contaminando anche gli altri pesci. Pa.Ru. —
Dalle galline allevate all’aperto un contenuto più alto di Omega 3
La differenza nella qualità di vita tra animali che razzolano all’aperto e quelli che passano la loro esistenza in gabbia si sente anche nella qualità delle uova che mangiamo. Questo nonostante i pennuti vivano in gabbie un po’ meno austere che nel passato, per gli arricchimenti imposti dalla comunità europea, come posatoi e nidi artificiali che rendono meno dura la vita delle galline.
Secondo un report di Ciwf, la maggiore organizzazione internazionale per la protezione degli animali d’allevamento, le uova di galline provenienti da allevamenti biologici o all’aperto hanno un contenuto più alto di Omega 3 – proteggono da ipertensione, trombosi e molte malattie neurodegenerative – oltre che un rapporto più favorevole tra questi e gli Omega 6, che riducono il rischio cardiovascolare. In alcuni casi le uova di galline allevate a terra o all’aperto sono più ricche anche di vitamina E ed altri antiossidanti come betacarotene e lutenia che proteggono dalle malattie oncologiche.
Secondo Unaitalia, l’associazione delle filiere di carni e uova, i diversi metodi di allevamento avrebbero invece a che vedere solo con la qualità di vita degli animali e non con le loro proprietà nutritive. Fermo restando che acquistando uova fresche ciascuno può fare la propria scelta, grazie ai codici stampigliati sul guscio: 0 per gli allevamenti biologici, 1 per le galline allevate all’aperto, 2 per quelle al chiuso e 3 per quelle allevate in gabbia. Pa.Ru. —
Il paradosso, gli svizzeri meno esposti al rischio cardiologico
Studi internazionali stimano che il latte proveniente da mucche allevate nei pascoli non superi il 10-15% della produzione. E uno studio condotto in Svizzera ha rilevato quello che gli esperti di alimentazione chiamano il paradosso alpino: a parità di consumo di latticini gli svizzeri accusano una minore incidenza di malattie cardiovascolari rispetto ad altre popolazioni. E guarda caso, da loro le mucche pascolano beate tra i prati di montagna, anziché essere stipate negli allevamenti intensivi. Vari studi italiani e inglesi hanno infatti dimostrato che l’alimentazione al pascolo fa aumentare la produzione di proteine e modifica la produzione degli acidi grassi in modo più benefico da un punto di vista nutrizionale. Ma «nei processi industriali come la pastorizzazione a temperature elevate, la caseina presente in latte e formaggi coagula e diventa una sostanza colloidale insolubile, presente nel latte in polvere che a sua volta è in tanti prodotti come la cioccolata al latte», spiega la nutrizionista Alessandra Grifoni. «La caseina così degradata comporta poi una serie di eventi a cascata dannosi per il nostro organismo, causando disturbi digestivi. Inoltre le alte temperature compromettono la salubrità dei grassi e del colesterolo presente in latte e latticini, favorendo la presenza di prodotti ossidati, che sono responsabili delle placche alle arterie e di stati infiammatori latenti». Pa.Ru. —