La babele della tavola italiana è completa. L’ennesima vendita di un’azienda storica dell’alimentare nazionale – Acetum, leader nella produzione e distribuzione dell’aceto balsamico, alla britannica Associated British Foods – allunga la lista dei grandi marchi che non sono più italiani: la Nestlé ha inglobato la Buitoni e la Perugina, la Parmalat è della francese Lactalis, come Galbani e Locatelli, i gelati Grom sono andati alla britannica Unilever, lo spumante Gancia alla russa Tariko, i cioccolatini Pernigotti al gruppo turco Toksoz. Persino alcune aziende di punta della produzione del Brunello di Montalcino sono andate ad imprenditori esteri. «Il cambiamento di proprietà ha significato spesso lo spostamento delle fonti di approvvigionamento della materia prima a danno dei coltivatori italiani che offrono un prodotto di più alti standard qualitativi », rileva il presidente di Coldiretti, Roberto Moncalvo. Eppure la novità, che emerge invece dalle rilevazioni periodiche di Kpmg, è che si sta rafforzando negli ultimi anni anche la tendenza contraria: gli italiani si espandono attraverso l’acquisto di marchi stranieri di prestigio. La “top ten” 2016 vede in testa la Lavazza, che ha acquistato il 100% della francese Carte Noire, e quest’anno ha rilanciato, diventando proprietaria dell’80% della canadese Kicking Horse Coffee. Importante anche l’operazione Segafredo, che ha rilevato la portoghese Nuticafes. Ferrero ha acquistato i biscotti della belga Delacre, e la britannica Thortons, oltre all’americana Fannie May (cioccolatini). Negli ultimi due anni spiccano anche gli acquisti di Granarolo, molte anche le acquisizioni di Campari, tra cui l’americana Bulldog London Dry Gin e la francese Société des Produits Marnier. «C’è anche molta Italia che va all’estero. – conferma Max Fiani, Partner KPMG Corporate Finance – Aziende che si stanno facendo spazio in una serie di mercati, ampliando anche le categorie di vendita». Dal 2014 al primo semestre di quest’anno le acquisizioni dall’estero nell’agroalimentare italiano sono state 56, per il valore di 1,6 miliardi, ma quelle italiane all’estero, pur essendo di meno, 30, valgono un po’ di più, 1,9 miliardi.
Un buon segnale, ma l’allarme rimane specie per prodotti che in teoria dovrebbero essere strettamente legati alle materie prime e al territorio italiano, come le dop e le Igp. E se le dop sono tutelate da disciplinari rigidi, ammonisce Coldiretti, le Igp hanno una regolamentazione molto più flessibile: «In moltissimi di questi casi la nuova proprietà nel tempo tende a sostituire il prodotto italiano con uno equivalente di altri Paesi, e da qui si è arrivati anche alla chiusura di stabilimenti. Ma anche quando questo non accade, il rischio per la qualità dei nostri prodotti è notevole. Se si tratta di Igp, come nel caso dell’aceto balsamico, il legame con il territorio non è automatico, e neanche adeguatamente garantito dal disciplinare Ue. È per questo che noi ci stiamo battendo per ottenere questo tipo di garanzia, l’origine territoriale obbligatoria, almeno per i prodotti più tipici del Made in Italy».
L’ANALISI. Sfida tra giganti, ma c’è chi reagisce
Ettore Livini. A far male al Pil dell’Italia non è solo la fuga dei cervelli. Anche la tavola tricolore, un pezzo alla volta, ha visto partire per l’estero negli ultimi anni un bel po’ dei suoi marchi migliori. Il nostro problema numero uno, dicono gli esperti, sono i nostri pregi: la biodiversità della cucina della penisola ha conquistato i palati di tutto il mondo. E il made in Italy alimentare è diventato un supermercato a cielo aperto dove i big stranieri si presentano sempre più spesso per fare shopping.
Ad accelerare la diaspora è arrivata la rivoluzione commerciale del settore. La grande distribuzione – da un paio di decenni a questa parte – detta le regole del mercato. Per conquistarsi un posto sugli scaffali e nei carrelli è necessario avere volumi e diversificazione geografica alla portata solo delle grandi multinazionali. Risultato: la mappa della tavola globale è stata riscritta da zero. E le piccole e medie realtà di casa nostra – spesso aziende più attente alla qualità e al controllo familiare che alle dimensioni – hanno recitato il ruolo delle prede in un risiko dove i big, come al calciomercato, hanno fatto il bello e il cattivo tempo.
La regola ha le sue eccezioni. Qualche azienda italiana, basti pensare a Ferrero e Barilla, è riuscita a tenere alto il tricolore. Continuando a crescere anche in questa partita riservata ai giganti. Non solo: il made in Italy agroalimentare, malgrado l’emorragia di marchi verso l’estero, tiene alla grande. Certo esportiamo molto meno cibo della Germania (una mezza eresia, visto il menu dei due Paesi) ma le vendite all’estero sono in continua crescita. Nel 2016 sono salite a 38 miliardi, un record, e quest’anno marciano a +10% circa.
La lezione dell’ultimo ventennio, oltretutto, ha insegnato al Bel paese come difendere il proprio patrimonio, facendo squadra per valorizzare le eccellenze invece di svenderle. Un esempio? Le società del caffè, da Lavazza a Segafredo fino alla Illy, così come Granarolo e Campari si sono ritagliate un posto al sole a suon di acquisizioni, senza sacrificare la qualità. L’agricoltura nazionale ha imparato a fare rete: i coltivatori di mele del Trentino si sono consorziati salvaguardando le radici ma riuscendo a competere a livello continentale. Lo stesso è successo ai produttori e trasformatori di pomodoro tra Lombardia ed Emilia. L’unione, nel loro caso, ha fatto la forza, trasformandoli nel primo distretto del settore al mondo per valore. Lo Stato, per una volta, ha provato a dare una mano virtuosa al processo. Il ministero dell’Agricoltura guidato da Maurizio Martina ha varato la descrizione d’origine obbligatoria per molti prodotti – dal latte ai cereali – e stanziato sostegni alle filiere più virtuose per accelerarne il consolidamento. Un modo per provare a difendere la tavola tricolore dall’assalto dei barbari.
Repubblica – 17 settembre 2017