NINO CARTABELLOTTA* Ogni anno, in occasione della discussione sulla Legge di Bilancio, va in scena la stessa farsa: un déjà-vu che si ripete ormai da almeno 15 anni. Il dibattito politico sulle risorse da assegnare alla sanità inizia con la richiesta, spesso consistente, del Ministro della Salute, poi regolarmente ridimensionata o rispedita al mittente dal Ministro dell’Economia e delle Finanze. Infatti, anche per il 2024 il Ministro Schillaci, consapevole della grave crisi del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e delle richieste delle Regioni, chiede almeno 4 miliardi di euro in più. Il Ministro Giorgetti, prima possibilista seppur al ribasso, da Cernobbio annuncia che “sarà una manovra prudente”, confermando in politichese puro che, ben che vada, per la sanità non ci saranno tagli o forse rimarrà qualche briciola.
Questa farsa annuale segue un copione in tre atti, fedelmente interpretato da Governi di tutti i “colori”. Nel primo atto la spesa sanitaria viene identificata come la fetta di spesa pubblica più facilmente aggredibile: una sorta di salvadanaio sempre aperto, a cui è possibile attingere per qualsiasi necessità, che si tratti di reperire risorse per risanare la finanza pubblica, o più spesso di soddisfare il proprio elettorato. Il secondo atto dimostra che il saccheggio ripetuto alla spesa sanitaria non crea dissenso nel breve e medio termine, perché gli effetti del definanziamento sull’organizzazione dei servizi sanitari organizzazioni sanitarie si vedono dopo qualche anno, quelli sull’accesso alle cure dopo lustri e le conseguenze sulla salute delle persone dopo decenni. Nell’ultimo atto si sceglie di non investire in sanità per la stagnante crescita economica, ignorando che il grado di salute e benessere della popolazione è una determinante dello sviluppo economico del Paese.
E con l’annuale messa in scena della stessa farsa da un lato arrivano disservizi e disagi per cittadini e pazienti, dall’altro i confronti internazionali restituiscono numeri impietosi. Nel 2022 in Italia la spesa sanitaria pubblica si attesta al 6,8% del PIL a fronte di una media OCSE del 7,1% e dei paesi europei: un -0,3% che non ci dà la misura del baratro che appare in tutta la sua profondità guardando alla spesa sanitaria pubblica pro-capite. Dove l’Italia nel 2022 ha speso $ 3.255, al di sotto della media OCSE ($ 3.899) e della media dei paesi europei ($ 4.128): meno di noi in Europa spendono solo i paesi dell’Est (Repubblica Ceca esclusa), oltre a Spagna, Portogallo e Grecia. E sorprendentemente il gap si è ampliato con la pandemia, quando l’aumento di oltre € 11,4 miliardi di finanziamento pubblico nel triennio 2020-2022 (peraltro insufficienti a mantenere in ordine i conti delle Regioni) sembrava una manna dal cielo rispetto agli esigui investimenti degli anni precedenti. E così, dopo 15 anni di definanziamento pubblico oggi raccogliamo frutti amari: al cambio corrente dollaro/euro l’Italia spende € 808 pro-capite in meno della media europea; ovvero, oltre € 47,6 miliardi in meno. Per non parlare dell’impietoso confronto con i Paesi del G7, di cui nel 2024 l’Italia avrà la presidenza. Siamo fanalino di coda da sempre, ma se nel 2008 tutti i Paesi del G7 destinavano alla spesa pubblica pro-capite una cifra compresa tra $ 2.000 e $ 3.500, nel 2022 i gap sono incolmabili: la Germania spende quasi $ 7.000 pro-capite e la Francia oltre $ 5.500.
Ecco perché bisogna riscrivere interamente il copione. Uscire innanzitutto dalla “manutenzione ordinaria” del SSN e dall’annuale tira e molla sulle cifre da assegnare alla sanità pubblica in Legge di Bilancio. Avviare una radicale e moderna riorganizzazione dei servizi sanitari, che non può prescindere da un progressivo rilancio del finanziamento pubblico. Ovvero, non serve solo conoscere quante risorse saranno destinate alla sanità nella Legge di Bilancio 2024, ma quale trend si prevede per la spesa sanitaria a partire dall’imminente Nota di Aggiornamento del DEF. Ridefinire le regole della leale collaborazione tra Governo e Regioni che, in sanità, configura proprio quella Repubblica che “tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, accantonando sia nostalgiche ipotesi di un neo-centralismo sanitario, sia le pericolose derive regionaliste dell’autonomia differenziata, destinate ad aumentare diseguaglianze regionali e migrazione sanitaria e a dare il colpo di grazie al SSN. Qui occorre semplicemente potenziare, con strumenti già disponibili, le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni, al fine di garantire l’uniforme erogazione delle prestazioni essenziali. Favorire la collaborazione tra tutti gli attori della sanità, rendendoli consapevoli che il momento storico che vive il SSN richiede di rinunciare ai privilegi acquisiti per salvare il bene comune. Sensibilizzare l’opinione pubblica che la perdita del SSN avrà un impatto non solo sulla salute e il benessere della popolazione, ma anche sull’economia e sulla società del Paese. Last, but not least, se la politica vuole mantenere un SSN equo e universalistico e finanziato con la fiscalità generale, deve avviare serie politiche per contrastare l’evasione fiscale. Oggi il nemico pubblico numero uno del SSN.
*Presidente Fondazione GIMBE
La Stampa