Dopo il declassamento, gli interventi rimasti ancora in via di definizione. Dall’ipotesi di abolire gli ordini alle regole per i praticanti, tutto si è bloccato in aula. Per evitare altri declassamenti del rating sul debito pubblico, l’Italia deve «attuare riforme strutturali intese a promuovere la crescita», dice l’agenzia Standard & Poor’s. Dalle liberalizzazioni alle privatizzazioni, dal mercato del lavoro alle professioni, c’è bisogno di rimuovere vincoli e ostacoli allo sviluppo, spiega il lungo documento che accompagna la decisione sul rating. E c’è poi il capitolo pensioni. Liberalizzazioni Ha ragione Standard&Poor’s a includere tra le «principali debolezze» dell’Italia «l’incombere dei monopoli»?
Soffermiamoci sui servizi pubblici locali e sul settore del commercio, entrambi normati dall’ultima manovra. Il decreto ha rilanciato il processo di liberalizzazione stabilendo che gli enti locali debbano verificare la realizzabilità di una gestione concorrenziale, «compatibilmente con le caratteristiche di universalità e accessibilità del servizio». In questo modo si è colmato il vuoto normativo lasciato dal referendum di giugno scorso. Ma, come ha notato l’Antitrust, è stata anche introdotta una soglia di goo mila euro al di sotto della quale la gara per la scelta del gestore dei servizi non è obbligatoria. «In questo modo — secondo il Garante — si configura per alcuni settori una sottrazione quasi integrale dai necessari meccanismi di concorrenza per il mercato». In particolare il sistema «si presta facilmente a comportamenti elusivi: sarebbe sufficiente frazionare gli affidamenti in tante “tranche”, ciascuna di valore inferiore a 900 mila euro, per poterle poi attribuire tutte direttamente a controllate in house». Quanto alla riforma del commercio, la manovra ha cancellato l’unica norma che avrebbe allargato i confini della normativa Bersani risalente al ’98, circoscrivendo la liberalizzazione degli orari ai soli siti d’interesse turistico.
Privatizzazioni Le Poste no, perché hanno 153 mila dipendenti, molti dei quali occupati nel servizio di recapito, che è in perdita. Eni ed Enel no, perché sono i gioielli di famiglia, e poi con i prezzi correnti di Borsa significherebbe svendere. E neanche la Cassa Depositi e Prestiti, perché è una banca che dà soldi agli enti locali raccogliendo il risparmio postale garantito dallo Stato, né la Finmeccanica, che fa armamenti ed è rimasta l’unica società che fa ricerca in Italia. Tra veti incrociati e considerazioni di opportunità, spesso anche giustificate, le privatizzazioni italiane sono da anni ferme al palo. E non deve stupire se Standard&Poor’s, che nel suo rapporto cita il caso dell’Alitalia e dei veti sindacali alla cessione ad Air France, lo considera un altro punto debole dell’economia italiana. Da vendere, anche senza farsi del male come è successo con Tirrenia, pagata 38o milioni, ma costata allo Stato 576 milioni con le convenzioni concesse agli acquirenti, di roba ce ne sarebbe tanta. Solo gli immobili sono valutati 400 miliardi di euro, una cifra appena scalfita dalle cartolarizzazioni. Ma in gran parte sono degli enti locali e finora i tentativi di costringerli alle cessioni non hanno prodotto risultati. Ci sono le concessioni, come quelle demaniali, ma guai a parlarne agli ambientalisti. E tante altre società pubbliche. La Rai, ma chi se la compra in queste condizioni? O l’Inail, non sia mai che si privatizzi un ente previdenziale. O Terna, che gestisce la rete elettrica, e quindi è strategica. L’elenco delle società potrebbe continuare all’infinito, condito dalle più varie considerazioni che ostano alla dismissione. Tanto che nell’elenco delle privatizzabili non resta, ormai, che il BancoPosta.
Mercato del lavoro In Italia ci sono meno persone, soprattutto donne e giovani, che lavorano rispetto ai principali Paesi europei e questo frena la crescita dell’economia, dice l’agenzia Standard & Poor’s. Gli analisti citano la «rigida regolamentazione» e i sindacati quali fattori che ostacolano la crescita del tasso di lavoro, ma le cause sono anche altre. Ecco i dati Eurostat, che fanno risaltare l’anomalia italiana. Nel primo quadrimestre del 2011 il tasso di occupazione (quante persone lavorano nella fascia d’età 15-64 anni) è stato del 56,8% in Italia contro il 63,8% della media dell’Unione europea, il 69,4% del Regno Unito, il 71,5% della Germania, il 63,4% della Francia, il 57,7% della Spagna, il 74,4% dell’Olanda. Anche la Grecia fa meglio di noi, con il 56,9%. Il divario diventa forte se si guarda al tasso di occupazione femminile. In Italia il 46,4% contro una media Ue del 58,1%. La Germania sta al 66,8%, il Regno Unito al 64,6%, la Francia al 59,2%, la Norvegia al 73,2%. In questa differenza pesano fattori culturali e la mancanza di un adeguato livello di servizi per la madre lavoratrice. Lo scarto è ancora più forte per i giovani. Il tasso di occupazione nella fascia 15-24 anni è del 32,9% nella Ue, solo del 19,6% in Italia, del 28,9% in Francia, del 47,1% in Germania, del 45,8% nel Regno Unito, del 61,8% in Olanda.
Professioni Due mesi di fughe in avanti e retromarce. Il ministro Tremonti lo aveva annunciato «stavolta metteremo le mani nel sistema delle professioni». Sono stati stilati documenti in cui si sopprimevano gli esami di Stato e, di conseguenza, gli stessi Ordini professionali. Ma ogni volta questi tentativi sono andati a scontrarsi con la ferma opposizione del mondo professionale (ben rappresentato in parlamento) ma anche con lo scetticismo di ministri come Sacconi e Alfano. Il tentativo più frequente è stato quello di equiparare le professioni alle imprese: quindi l’abbattimento di qualsiasi steccato o riserva per qualsiasi categoria. Una simile mossa però avrebbe richiesto la forza di toccare professioni simbolo come quella dei notai e soprattutto dei farmacisti. Quest’ultimi conducono da tempo una battaglia contro l’apertura del mercato alla parafarmacie. Anche in questi casi tutto è pressoché rimasto come prima. Le uniche innovazioni sono state la reintroduzione delle tariffe minime (derogabili), l’obbligatorietà dell’assicurazione professionale e la libera iniziativa in tema di pubblicità. Bocciata invece l’istituzione delle società professionali di capitale.
Il Corriere della Sera – 21 settembre 2011