GIANLUCA NICOLETTI, La Stampa. 25 dicembre 2020
Il 2020 è stato l’anno del memento mori. Nessuno di noi, che non sia stato lambito dalla guerra, potrà ricordare un’ecatombe di portata simile. Quasi 70mila vittime, non per mano di un nemico in divisa, che potremmo permetterci anche di odiare. Sono state strozzate da un quasi nulla, un microscopico grumo, una pallina di pochi nano millimetri. Un filamento infinitesimale di RNA che abbiamo giocato a raffigurare come fiore velenoso con una corolla di glicoproteine, qualcosa sospeso tra un abbozzo di organismo e un ultra corpo alieno. Allo scoppio della pandemia è cominciata a circolare la notizia di una strage; si moriva a grappoli, silenziosamente bombardati a tappeto dal Covid 19.
Noi, che all’inizio ci sentivamo al sicuro nelle retrovie, abbiamo però pensato che la cosa ci riguardasse non più di tanto. Per esorcizzare un male concreto lo abbiamo spostato nell’universo delle narrazioni incrociate, ci siamo creati ad personam il simulacro della nostra paura, proprio come gli antichi ritraevano sotto la forma di demoni ungulati e cornuti le loro afflizioni senza spiegazione.
Abbiamo tutti contribuito al favoleggiare, fino a ridurre a un mito ambiguo quel virus incoronato. Intanto quello ha continuato a uccidere, moltiplicandosi e togliendo il respiro ai più fragili tra noi. Questo ci ha notevolmente destrutturato, solo però perché siamo stati costretti a riconsiderare grande parte delle nostre certezze, sedimentate su abitudini che consideravamo non più negoziabili. Il morire altrui per i più superficiali di noi era quindi ben poca cosa, di fronte alla libertà di muoversi per strada, di essere parte di una folla, di ballare, correre, abbracciare, scambiarsi fluidi e moine.
Questo è l’apice più atroce dei tanti coefficienti che hanno condannato all’esser salme desolate le vittime del Covid. Abbiamo invocato il diritto alla movida di fronte a carni che si raffreddavano lontane dalle lacrime di chi potesse rimpiangerle. Ci siamo industriati a cercare di fare tutto come se niente fosse accaduto, abbiamo finto di non vedere come ogni nostro atto di sfida potesse condizionare la sorte di umani e non essere più conteggiati tra i vivi. Scomparsi nel buio senza che chi li ha amati potesse tenere la mano, o chiudere loro gli occhi.
Così questo anno finisce senza che ci sia stata una comune, unanime, incondizionata e collettiva dimostrazione di vera pietà verso le persone che si sono spente; nude, a faccia in giù, con dei tubi infilati in gola. È terribile pensarlo, ancor più ammetterlo e farsene carico per la propria parte, ma le vittime del Covid sono ricordate con sincera emozione quasi unicamente dai loro parenti e i loro cari. Il nostro paese ancora è sottilmente e vigliaccamente attraversato da un’indifferenza vergognosa, che serpeggia a volte sotterranea, altre è rappresentata sotto forma di grigie metafore, altre è crudamente espressa in una frase fulminante nella sua rozza spietatezza: «in fondo l’età media dei morti è 80 anni!».
La sintesi di tale noncuranza, per chi è ogni giorno bersaglio inerme del male che su di noi tutti incombe, è la parola d’ordine che infine dovremmo fare pace con l’idea della fatalità; qualche persona, con rughe e capelli bianchi, sarebbe comunque morta per acciacchi pregressi e remota anagrafe, questo quindi non sarà poi la fine del mondo. Su tale premessa può quindi passare, come se avesse fondamento, lo slogan «per non morire di Covid si morirà di fame!».
È ingiusto, non coerente con la realtà, superficiale e soprattutto satollo dell’ammaestramento a considerare, per demagogia, più impellenti i desiderata di chi edifica il consenso, piuttosto che dei più deboli. In questo frangente il privilegiato è colui che vive, non essendo stato toccato in maniera letale dal virus. Nulla e nessuno può invece essere considerato più frangibile di chi si trovi nella sensazione certa della vita che sta per abbandonarlo, mentre è immobilizzato e solo nella lucida consapevolezza di essere vicino al momento estremo, quello in cui il boia lo strangolerà.
Non è negando lo specifico stato di vittime da Covid di decine di migliaia di connazionali che ci salveremo, non ci garantirà l’immunità cercare dati e statistiche che provino l’ipervalutazione delle scomparse. Addurre a complotti, giochi di potere, mistificazioni interessate persino il tristissimo convoglio delle bare, diventato uno dei simboli più atroci di questo anno, non ci assicurerà che quella montagna di feretri non possa crescere con il nostro, o quello dei nostri congiunti. Infine verrà un giorno in cui tutto questo finirà.
Comunque finirà e andrà scritto nel libro della nostra storia, come ogni altra pestilenza, epidemia, catastrofe sanitaria. Non a tutti sarà però concessa uguale dignità nel ricordare il proprio diritto alla cittadinanza, molti di noi sarà opportuno che tacciano, almeno quando si dovrà affrontare il capitolo di quei morti seppelliti in sordina per non turbare l’aperitivo dei sopravvissuti.