di Alberto Brambilla*. Del nostro sistema pensionistico e di protezione sociale si parla spesso sia a livello politico sia di media; molte volte, purtroppo, male e per sentito dire. Soprattutto in materia pensionistica si assiste da un lato alle grandi polemiche sulle cosiddette «pensioni d’oro» con proliferazione delle metodiche per ridurle di importo; dall’altro la richiesta di aumentare le pensioni più basse; infine tutti vorrebbero una riduzione della spesa pubblica per poter ridurre le tasse.
Come vedremo di seguito una riduzione della spesa pubblica implica quanto meno una stabilizzazione, senza aumento della spesa per welfare, giacché questa incide per il 50% sul totale ed è molto in linea con la media europea. Peraltro un’alta spesa per protezione sociale, come evidenziava Jaques Delors già nel 1989, implica un maggior prelievo fiscale e contributivo che appesantisce l’economia, aumenta il costo del lavoro e riduce la competitività con conseguenze pesanti sull’occupazione. In questa breve carrellata elenchiamo 3 bugie e 3 verità «scomode» di cui sarebbe utile tener conto.
Le bugie sul welfare: siamo nella media Ue Il confronto
«La spesa per la protezione sociale in Italia è bassa e inferiore alla media europea». Non è vero, perché: a) su un totale di spesa pubblica pari a 801 miliardi (bilancio 2012), comprensiva della mostruosa spesa per interessi di 86,7 miliardi (quasi l’11% della spesa totale), la spesa per pensioni, assistenza sociale e sanità è stata pari a 392,4 miliardi cioè il 49% dell’intera spesa; b) anche calcolando l’incidenza della spesa sociale sul Pil secondo la metodica Eurostat, per l’Italia tale rapporto è pari al 29,7% rispetto alla media dei 28 Paesi pari a 29% e quella a 15 Paesi pari a 29,8%. Si noti che nel totale della spesa il nostro Paese dichiara zero per la casa (siamo gli unici assieme a Croazia, Bulgaria Estonia, Lituania, Slovenia, Serbia, Romania e Portogallo) e non riesce a contabilizzare buona parte della spesa sociale degli enti locali; calcolando queste due spese l’incidenza sul Pil aumenterebbe di circa 1,2 punti, facendoci diventare tra i «più generosi» d’Europa.
La casa
«Il nostro Paese spende nulla per sostenere e aiutare i cittadini ad abitare un alloggio». Non è vero, perché calcolando la spesa per il sostegno all’abitare come richiede la contabilità europea, cioè la differenza tra gli affitti a valori di mercato e quelli effettivamente pagati dagli inquilini, il solo importo relativo alle ex case popolari (ora Aler regionali) vale circa 0,6 punti di Pil che sommati alla quantità industriale di alloggi di Comuni, ex Province, Regioni (spesso ancora non regolarmente gestiti), l’aiuto alla casa supererebbe di gran lunga il punto percentuale.
I disoccupati
«Si spende troppo in pensioni e poco nelle altre forme di protezione sociale quali famiglia e bambini, disoccupazione, esclusione sociale e casa». Basta riclassificare la spesa pensionistica e depurarla dagli oneri non pensionistici per scoprire che non è vero. Tolti i costi relativi agli assegni familiari, alle maggiorazioni sulle pensioni, alle integrazioni al minimo (tutte legate al livello di reddito del pensionato o del nucleo familiare), e gli effetti degli oltre 450 mila prepensionamenti caricati da noi come pensioni mentre nella maggior parte dei Paesi sono contabilizzate alla voce «disoccupazione», emerge che: a) sia il sostegno alla famiglia, sia l’aiuto ad anziani e indigenti singoli o nuclei familiari (esclusione sociale) sia il sussidio per i disoccupati, aumentano in rapporto al Pil, raggiungendo abbondantemente la media europea; b) la voce pensione viceversa si riduce per due motivi; il primo perché scorporando dalla spesa pensionistica (242,87 miliardi per il 2012) la quota di trasferimenti dalla Gias e Gpt (rispettivamente Gestione interventi assistenziali e Gestione prestazioni temporanee) che altro non sono se non fiscalità generale (le tasse che paghiamo) che valgono circa 40 miliardi, si riduce dal 15,6% al 13,1% (2,5 punti in meno); il secondo perché da noi le pensioni sono tassate: nel 2012 l’Irpef e le addizionali comunali e regionali hanno sottratto 45,9 miliardi di euro ai pensionati; si stima che il 50% di queste tasse gravi solo su circa 2 milioni di pensionati, dato che gli 8,6 milioni di pensionati di cui sotto non pagano un euro di tasse. Considerando che le tasse sono una partita di giro, dal momento che il pensionato prende solo il netto, il vero esborso per lo Stato è di 197 miliardi da depurare della spesa assistenziale (quindi attorno al 10% sul Pil).
Le verità sugli assegni: pochi contributi versati. I beneficiari
«Sindacati e politici invocano spesso (soprattutto quando c’è da prendere consensi) l’aumento delle pensioni basse». La verità è che su 16.561.000 pensionati, circa 8,6 milioni (cioè ben il 52%, dato da Paese calamitoso) percepiscono prestazioni totalmente o parzialmente a carico della fiscalità generale, come i circa 4,73 milioni di soggetti beneficiari delle integrazioni al minimo e delle maggiorazioni sociali; soggetti cioè che non sono riusciti, assieme agli oltre 825 mila percettori di pensione sociale, in 66 anni di vita a fare almeno 15 anni di contribuzione regolare; e se non hanno pagato i contributi non hanno neppure pagato le tasse. Detta brutalmente la pensione sarà modesta ma è in gran parte regalata dalle giovani generazioni che non saranno così fortunate.
Le prestazioni
«In Italia si fa poca assistenza». La verità è che per garantire la quantità record di prestazioni (23,431 milioni cioè una ogni 2,5 abitanti) la differenza tra contributi versati al sistema previdenziale e la spesa vera è coperta dalla fiscalità, per un importo pari a 83,6 miliardi, più o meno la spesa per gli interessi sul debito; e questa spesa grava solo su quelli che le tasse le pagano sul serio (ecco perché la pressione fiscale è così alta).
La fiscalità
«Le tasse in Italia le pagano in pochi e quindi mancano anche i contributi». La verità è che 51,8 milioni di italiani pagano una Irpef media di 923 euro a testa (solo il servizio sanitario costa oltre 1.800 euro a testa); poco più di un quarto dell’Irpef (27,3%) è pagata dal 3,18% dei contribuenti; di questo passo chi pagherà le pensioni e la sanità? Pensioni d’oro: come si vede è difficile immaginare riduzioni e contributi di solidarietà a carico di chi ha almeno pagato la propria pensione (la maggioranza, salvo qualche migliaio di furbi) quando la metà della popolazione beneficia di rendite a carico della fiscalità generale, quindi di tutti noi, tanto più che ai pensionati sopra i fatidici 3 mila euro lordi (1.700 netti) la pensione «retributiva» non è stata calcolata con il 2% per anno (con 35 anni il famoso 70% di pensione rispetto all’ultimo stipendio) ma con una media che per una retribuzione lorda di 200 mila euro l’anno (meno di 100 mila netti) non arriva al 50%. Così com’è difficile immaginare aumenti delle pensioni a parziale o totale carico dello Stato, poiché diverrebbero più alte delle pensioni pagate con i contributi. Tagliare o aumentare le rendite pensionistiche deve essere fatto con rigore, altrimenti la già grande evasione contributiva diverrebbe la norma e pagare i contributi non converrebbe più a nessuno.
* Docente e presidenteCts Itinerari previdenziali
Il Corriere della Sera – 29 dicembre 2014