Si iniziano a precisare i contorni dell’operazione di revisione delle regole pensionistiche che il governo vuole realizzare con la legge di Stabilità e poi applicare dal primo gennaio 2016. Renzi conferma l’intenzione di rendere più flessibili le regole di uscita. Per il governo, chi lascia anticipatamente il lavoro subirà soltanto una penalizzazione di circa il 2 per cento annuo. Una penalizzazione dell’assegno, anche più consistente di quella ipotizzata nella proposta di legge presentata in Parlamento, in cambio delle libertà di scegliere in modo flessibile la data del pensionamento. Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’Economia ma anche firmatario di quel testo legislativo insieme a Cesare Damiano e ad altri deputati, punta a fare entrare in vigore le nuove regole previdenziali già dal primo gennaio 2016. «La linea della flessibilità ormai si sta affermando ed anche il presidente del Consiglio ha indicato di voler andare in questa direzione. È un’esigenza condivisa dal Parlamento ed anche dalle parti sociali».
Lasciare il lavoro prima in cambio di una pensione un po’ più bassa? Ma quanto più bassa esattamente?
«Nella proposta di legge ipotizziamo che sia applicata sulla quota retributiva della pensione una decurtazione del 2 per cento per ogni anno di anticipo, a partire dai 62, rispetto all’età di riferimento per la pensione di vecchiaia ovvero 66 anni. La penalizzazione però si attenua gradualmente se gli anni di contributi sono più di 35. Si può anche pensare a tagli più consistenti o ad una diversa modulazione. Le possibilità tecniche sono più di una e sul tema sta lavorando anche l’Inps»
Però anche immaginando di stabilire una penalizzazione che bilanci finanziariamente, nel medio periodo, l’anticipo dell’uscita, resta il fatto che all’inizio ci potrebbe essere un forte afflusso verso la pensione e dunque una spesa eccessiva.
«È vero, e infatti gli aspetti finanziari vanno valutati molto attentamente, anche con l’Unione europea. Ma vorrei far osservare che in questi anni abbiamo speso 11 miliardi per gli esodati, problema ora in larga parte risolto, e risorse ingenti anche per strumenti come la cassa integrazione in deroga, che di fatto serviva a gestire situazioni di crisi in cui lavoratori non avevano la via di uscita verso la pensione. Bisogna mettere anche questi soldi sul piatto della bilancia, perché con la flessibilità qualcosa si risparmierebbe».
Non c’è il rischio che iniziando ad allentare le regole si creino i presupposti per uno smantellamento della riforma Monti-Fornero? Il Paese può permetterselo?
«Credo anche io che non sia immaginabile rinunciare ad una riforma fondamentale come quella del 2011. Ma rovescerei la questione: l’attuale assetto rischia di essere travolto proprio se non costruiremo dei margini di flessibilità. La diga non reggerà, a meno che non si permetta un certo deflusso tramite controllato. Introducendo correzioni equilibrate alla legge Fornero, la mettiamo in sicurezza. Del resto i parametri resterebbero gli stessi, l’età di riferimento resta fissata a 66 anni, crescenti. In più una maggiore possibilità di uscita per i lavoratori anziani può creare più occasioni di lavoro per i giovani, favorire un po’ di ricambio generazionale».
Si parla molto anche di superamento dei diritti acquisiti e di ricalcolo delle pensioni con il contributivo. Sono temi collegati?
«Sono due temi diversi. Io credo che i tempi siano maturi per un dibattito serio sui diritti acquisiti. Si può ragionare di contributi di solidarietà, legati agli effettivi versamenti, ma ad una condizione: distinguere i trattamenti alti da quelli bassi e medi-bassi che non potrebbero certo permettersi un ricalcolo».
Luca Cifoni – Il Messaggero – 20 maggio 2015