«Gli alberi non devono impedire di vedere il bosco». Era il 25 marzo del 1957 e il cancelliere tedesco Konrad Adenauer nel suo discorso in occasione della firma dei Trattati di Roma si affidava a un proverbio tedesco per illustrare la portata dell’opera.
«I particolari – precisava lo stesso Adenauer – non devono impedire di intravedere l’ampiezza del progetto raggiunto: poiché solo rafforzando la solidarietà dei nostri Stati siamo sicuri di sopravvivere e salvaguardare le nostre libertà e il progresso sociale».
Riuniti nella sala degli Orazi e Curiazi in Campidoglio, i padroni di casa – l’allora presidente del Consiglio, Antonio Segni, e il ministro degli Esteri, Gaetano Martino – accoglievano le più alte cariche di Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo. Dopo la nascita della Ceca, la Comunità del carbone e dell’acciaio nel 1951, i Sei posavano la prima pietra della Comunità economica europea e dell’Euratom, la Comunità europea dell’energia atomica. Nasceva la «piccola Europa», così battezzata dai giornali dell’epoca, con la creazione di un mercato comune da realizzare in dodici anni e tre tappe, un’unione doganale con l’abolizione dei dazi interni e una politica agricola comune. Solidarietà e pace dopo i tumulti della Seconda guerra mondiale. A curare la regia un triangolo istituzionale composto da una Commissione, un Consiglio e un Parlamento, affiancati da una Corte di giustizia e una Banca europea per gli investimenti, le principali istituzioni dell’Europa di oggi. Tutti alberi che insieme davano vita al grande sogno dell’integrazione europea.
Sabato 25 i leader e le più alte cariche delle istituzioni Ue si ritroveranno nella stessa sede per celebrare i 60 anni da quella storica firma con una «Dichiarazione di Roma» che dovrà indicare la rotta da seguire per affrontare le turbolenze all’orizzonte. I rischi da scongiurare non sono più quelli di un conflitto bellico, ma la minaccia dell’euroscetticismo che ha già portato Londra a scegliere la via della Brexit con l’attivazione della pratica di divorzio non appena i riflettori si saranno spenti, a partire dalla settimana prossima.
Sono in tutto dieci, se si considera anche quello di Parigi che ha istituito la Ceca, i Trattati che hanno delineato la tabella di marcia del cantiere europeo tra slanci in avanti e opere spesso incompiute per cercare di rendere la «casa Europa» più adatta a contenere i nuovi inquilini, passati progressivamente da sei a ventotto. André Sapir, senior economist del think tank Bruegel di Bruxelles, che è stato consigliere economico di Romano Prodi quando era alla guida della Commissione Ue, non ha però dubbi: «Tra tutti il più importante resta il Trattato di Roma, per l’eccezionalità del momento storico e dei suoi protagonisti. Gli altri sono stati piccoli passi all’insegna del compromesso, spesso dimenticando di individuare il bosco dietro agli alberi. Oggi un progetto di simile portata non sarebbe possibile».
Dopo il Trattato di fusione del 1965, quello di Lussemburgo del 1970 e quello di Bruxelles cinque anni dopo, è con l’Atto unico europeo del 1986 che viene messo nero su bianco l’obiettivo di realizzare il mercato interno dal 1° gennaio 1992. Il Trattato più famoso, ma anche quello più contestato, è stato però siglato a Maastricht nel 1992. La Cee diventa Unione europea, fondata su tre pilastri. Sulla carta si pongono le basi di un’Unione economico e monetaria (Uem), realizzata in pieno solo nella sua seconda parte con l’introduzione dell’euro, in circolazione dal 1° gennaio 2002 (oggi per 19 Paesi), e una vigilanza unificata affidata alla Banca centrale europea.
L’Unione politica, invece, resta ancora oggi un miraggio. «È questa – spiega Vincenzo Scarpetta, senior policy analyst di Open Europe – la più grande opera realizzata, ma al tempo stesso la più incompiuta: un’unica moneta sostenuta da un coordinamento delle politiche economiche basate su rigide regole numeriche».
Le aspettative si concentrano tutte sul Trattato di Amsterdam del 1997, ma vengono disattese. La palla passa dunque al Trattato di Nizza, che introduce una serie di riforme delle istituzioni, come l’estensione del voto a maggioranza al Consiglio per una quarantina di materie, mentre fisco, sicurezza sociale, asilo, immigrazione, fondi strutturali e audiovisivo continueranno a richiedere l’unanimità. Viene inoltre introdotta la ponderazione dei voti: i Paesi più grandi hanno un maggior peso nel processo decisionale.
La grande occasione mancata è la Costituzione europea, siglata a Roma il 29 ottobre 2004, che non ha mai visto la luce dopo la bocciatura ai referendum in Francia e Olanda del 2005. Lo shock è grande e secondo gli esperti è da questo momento che l’euroscetticismo inizia a mettere radici. I membri del club, ormai 27, ci riprovano con il Trattato di Lisbona del 2007, che recepisce alcune disposizioni della Costituzione europea. Dietro l’angolo c’è la prova del fuoco del Kosovo e la Ue risponde con l’istituzione di un Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune. Viene poi creata la figura del presidente permanente del Consiglio europeo e si introduce l’ormai famoso articolo 50 con la «clausola di recesso», che Londra si appresta ad attivare.
«I maggiori successi, spesso dimenticati dai movimenti anti-europeisti – osserva Scarpetta – sono legati proprio al miglioramento dei processi decisionali: tra questi il potere di codecisione del Parlamento europeo, introdotto dal Trattato di Maastricht e ampliato da quello di Amsterdam e di Lisbona che lo pone sullo stesso piano del Consiglio per la quasi totalità delle materie trattate».
Che cosa decideranno a Roma i leader europei? «Mi aspetto una dichiarazione breve – conclude Sapir – che riflette la realtà di un’Unione in crisi di identità. Al di là delle varie opzioni sul tavolo occorrerà trovare un modo per rifondare l’Unione guardando ai giovani. Solo così si può combattere il cattivo populismo». Il bosco tanto caro ai padri fondatori resta per ora avvolto nella nebbia.
Chiara Bussi – Il Sole 24 Ore – 20 marzo 2017