La crisi di governo? Improbabile. Le fibrillazioni? Sono certe. Questa la minestra che si sta preparando anche per la prossima settimana con un Salvini che ieri sera in un comizio ha ribadito: «Abbiamo spettato anche troppo, o si fanno le cose o ce ne andiamo». E ha rincarato: «Sull’autonomia non accettiamo un no».
Il dossier sul quale si concentrerà il tira e molla sarà quello delle Autonomie regionali, sul quale la pressione del Nord su Salvini è fortissima. Ma sullo sfondo pesa anche la questione Russia (Conte ne parlerà in Senato mercoledì) e della Tav poiché venerdì il governo italiano deve chiarire all’Ue cosa vuole fare pena la perdita dei finanziamenti europei.
Sulle Regioni ieri lo scontro è ripartito. Il premier ha scritto una lettera al Corriere della Sera per chiedere uno stop agli insulti e i governatori di Lombardia e Veneto hanno scritto una controlettera sottolineando di «essere stati feriti dal premier». Tanto è bastato a Palazzo Chigi per registrare però un cambio di toni.
I due governatori, nel mirino anche del Tesoro per la destinazione di quote di Iva e Irpef, sanno che nella loro offensiva su Conte possono triangolare con Salvini. Tuttavia il leader leghista è cauto. Il dossier Autonomia è spinoso anche per lui, perché deve tenere l’equilibrio tra Nord e Sud. Salvini, raccontano fonti a lui vicine, attenderà il vertice di domani pomeriggio a Palazzo Chigi prima di prendere una decisione sull’Autonomia. Certo, così come si va delineando, l’intesa non piace anche a lui, soprattutto sul punto delle risorse finanziarie, che sarà sul tavolo delle riunioni convocate da Conte proprio martedì.
LA SFIDA
Il ministro dell’Interno prima di domani non sarà a Roma. Al momento, la crisi è tutt’altro che esclusa ma Salvini non ha ancora sciolto i suoi dubbi. I rapporti con Conte e Di Maio sono ai minimi termini, i contatti ridotti allo zero, gli eventuali incontri chiarificatori per ora solo annunciati. Del resto anche dalle parti di Palazzo Chigi quelle che sono definite come minacce di crisi a mezzo stampa, che arrivano un giorno sì e l’altro pure, cominciano a infastidire. «C’è un governo che, al di là delle minacce, lavora febbrilmente», fanno notare fonti governative ricordando l’agenda fitta di riunioni che Conte ha avuto e avrà nei prossimi giorni, quando vedrà pure le parti sociali.
E Di Maio? Prepara, raccontano fonti pentastellate, un’offensiva sul taglio dei parlamentari, riforma centrale che, secondo il Movimento, potrebbe essere tra i motivi non detti della volontà della Lega di rompere.
Sull’Autonomia, per ora, il leader M5S non si esprime: nel Movimento si ribadisce come la riforma è nel contratto per i Cinque Stelle va fatta, ma bene, e la rivolta dei governatori non è altro che l’apertura di un fronte interno alla Lega. Tanto che le uniche riflessioni della giornata Di Maio le dedica al salario minimo, tema sul quale Durigon della lega dice: «Deve essere a costo zero per le piccole imprese». «Chi frena il provvedimento pugnala i lavoratori», avverte il vicepremier M5s annuncia, sulla proposta di legge, «novità nei prossimi giorni».
Novità che non si vedono, invece, sul fronte di eventuali riunioni tra il premier, o Di Maio, e Salvini. Ed è a Conte che, in questi giorni, il leader della Lega punta con forza, tanto da aver messo momentaneamente da parte anche il tema rimpasto. Così come secondario, al momento, appare il dossier del commissario Ue, al quale la Lega comunque non ha rinunciato. Ma prima c’è da superare la prossima settimana e i suoi tre giorni di fuoco: domani i vertici sulla Autonomia, mercoledì l’informativa di Conte sui fondi russi alla Lega, giovedì il possibile Consiglio dei ministri.
Restano le distanze sui soldi. Scontro sull’extragettito fiscale
Come in una corsa ad ostacoli, Giuseppe Conte, archiviata la questione della scuola, guarda al prossimo scoglio da superare. L’intoppo che ha davanti, e al quale deve rapidamente trovare una soluzione, riguarda il finanziamento delle funzioni che Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, chiedono di poter avocare a sé.
La verità è che la questione dei soldi è quella principale sul tappeto. Lo ha ricordato nemmeno ventiquattro ore fa il ministro degli Affari Regionali Erika Stefani. Senza l’autonomia finanziaria, ha detto, il regionalismo differenziato non esiste. Su questo, insomma, si gioca la battaglia campale. Ma Conte almeno un punto a suo favore, o meglio a favore delle posizioni dei Cinquestelle, lo ha segnato. I governatori volevano che gli insegnanti, i presidi, e il personale amministrativo, diventassero dipendenti delle Regioni.
BATTAGLIA SULL’EXTRAGETTITO
In questo modo il ministero dell’Istruzione avrebbe dovuto trasferire agli assessorati la titolarità delle risorse necessarie a pagare i loro stipendi. Circa 200 mila dipendenti pubblici, in questo modo, sarebbero passati dallo Stato alle tre Regioni. Luca Zaia e Attilio Fontana, avrebbero messo le mani su quasi 9 miliardi di spesa pubblica. Ma il punto vero è un alto. È il meccanismo attraverso il quale avrebbero ottenuto queste risorse. Lo Stato non avrebbe trasferito soldi, ma avrebbe ceduto una quota di una tassa: l’Irpef o l’IVA.
Proprio qui sta il punto, il nodo che dovrà essere sciolto domani. Se, per ipotesi, lo Stato cedesse due decimi di IVA alla Lombardia e al Veneto per finanziare le funzioni trasferite, cosa accadrebbe se l’anno successivo il gettito IVA dovesse aumentare? A chi andrebbe questo gettito extra? Allo Stato o alle Regioni?
La risposta di Zaia e Fontana è che questi soldi in più devono rimanere nella loro disponibilità. La risposta del Movimento Cinque Stelle, è che devono finire in un fondo di perequazione da distribuire alle Regioni che non dispongono di abbastanza risorse per finanziare dei servizi ai cittadini pari almeno a un livello minimo considerato adeguato per tutti gli italiani.
Zaia e Fontana da settimane si sgolano per dire che non vogliono questo meccanismo di solidarietà, perché la loro efficienza andrebbe a finanziare l’inefficienza delle regioni meridionali. In realtà il fatto che l’economia delle loro Regioni sia più dinamica e dunque permetta di avere più risorse, poco ha a che vedere con la capacità amministrativa dei governatori.
VINCERE FACILE?
La domanda resta però un’altra. Che accordo è possibile sulla complessa questione dell’extra gettito. Il compromesso al quale lavora il Tesoro, prevede la creazione di un fondo di perequazione nel quale far confluire soltanto una parte del gettito extra, quella che supera l’aumento della spesa delle funzioni trasferite alle Regioni legata alla dinamica del Pil.
L’extragettito oltre questa soglia, finirebbe nel fondo di perequazione. Che, comunque, la Lega, vorrebbe che fosse poi ripartito tra tutte le Regioni e non solo quelle del Sud. Per i governatori, che nella campagna referendaria hanno cavalcato il tema del surplus fiscale da trattenere sui territori, si tratta di un rospo grosso da ingoiare.
Del resto le bozze predisposte d’intesa con il ministro Stefani, prevedevano una sorta di asso piglia tutto. Non solo il gettito extra era previsto che sarebbe rimasto a disposizione dei governatori, ma anche che in caso di riduzione delle entrate, lo Stato avrebbe dovuto riconoscere delle compensazioni. Come diceva una fortunata pubblicità, a Zaia e Fontana sarebbe piaciuto vincere facile.
IL MESSAGGERO