Era stato Giorgio Napolitano, anni fa, a ricordare che non esistono “governi tecnici”: esistono solo governi “politici” in quanto ricevono la fiducia da una maggioranza parlamentare. In precedenza, molto tempo prima, anche Ugo La Malfa sosteneva lo stesso principio. Quindi nemmeno Mario Monti, peraltro nominato senatore a vita il giorno prima dell’investitura proprio da Napolitano, guidava un “governo tecnico”, bensì un esecutivo fondato su una regolare maggioranza. Una larga maggioranza, verrebbe da aggiungere.
Il tema è riaffiorato in queste ore quando il presidente del Consiglio e segretario del Pd è tornato a insistere sul punto: in caso di vittoria del “No” il 4 dicembre, egli sarà contrario a qualsiasi ipotesi di “governo tecnico”. Definizione che nel suo linguaggio equivale all’incirca a “governicchio”, ossia compagine di basso livello destinata a vita breve. Ovviamente Renzi sa bene che tutti i governi, nel momento in cui ricevono la fiducia, diventano espressione della maggioranza che li ha votati. È interessante allora capire cosa intende il premier con questo riferimento ai “tecnici” o ai governi di corto respiro (una volta si sarebbe detto “balneari”, ma in questo caso saremo in dicembre e si dovrebbe parlare semmai di governo “natalizio”). Di certo a Palazzo Chigi si pongono il problema del dopo referendum in caso di sconfitta della riforma Boschi. E Renzi sembra aver colto il centro del problema. Nell’eventualità del “No” vittorioso il Quirinale tornerà a tutti gli effetti al centro della scena. Ciò significa che si trasformerà nel “motore di riserva della Repubblica che si accende quando le altre istituzioni si inceppano”, secondo una nota immagine di D’Alema.
Non c’è dubbio che il motore istituzionale sarebbe inceppato se il “No” vincesse. Ma non sarebbe un passaggio più complesso di altri già vissuti in passato. Ci sarebbe da ripensare e riscrivere la legge elettorale su cui sta per pronunciarsi anche la Consulta; e si dovrebbe estenderla al Senato con le dovute differenze. Soprattutto si tratterebbe di restituire equilibrio a un paese lacerato non su una qualsiasi riforma, ma sulla Costituzione: la carta fondamentale, la cornice della convivenza. S’intende che questo vale anche in caso di vittoria del “Sì”. Se prevalessero i sostenitori della riforma, magari con uno scarto minimo, non sarebbe di buon gusto dare il via a una sorta di baccanale: al contrario si presenterebbero delicati problemi di attuazione della legge. Il nuovo vestito costituzionale dovrà essere adattato alle istituzioni già esistenti e la norma elettorale andrà comunque rivista, non tanto per i vaghi impegni politici presi in queste settimane, quanto per rispettare la sentenza della Corte Costituzionale.
QUINDI la centralità della presidenza della Repubblica sarebbe confermata anche in questo caso. Le lacerazioni del paese andrebbero ugualmente curate con sollecitudine perché gli strappi degli ultimi giorni, con il veto-non veto (in realtà una semplice riserva) posto al bilancio dell’Unione, sono destinati a lasciare una traccia. Indicano che il governo Renzi sta giocando con spavalderia tutte le carte a sua disposizione in vista del 4 dicembre. Come ha detto non senza candore il sindaco di Firenze, Nardella, “con la stessa maggioranza silenziosa che ha fatto vincere Trump in America, vincerà il “Sì” in Italia”.
TUTTAVIA, se Renzi-Trump fosse sconfitto nelle urne, sarebbe giocoforza per lui presentarsi dimissionario davanti a Mattarella. Questo non equivarrebbe a uscire di scena. Anzi, la critica ai “governi tecnici” fa pensare l’esatto contrario. È come se Renzi intendesse dire fra le righe al capo dello Stato, di cui non può non riconoscere il ruolo cruciale, che lui e il Pd non intendono appoggiare un’eventuale personalità indipendente a cui il Quirinale avesse in animo di rivolgersi. Una simile opzione rientrerebbe senza dubbio nelle prerogative presidenziali, purché si riuscisse a cucire una maggioranza in Parlamento. Ma oggi è evidente che l’unica maggioranza possibile continua a essere l’attuale, magari rinsaldata da qualche forma di convergenza con il centrodestra berlusconiano (a cominciare dalla legge elettorale).
Quindi è plausibile – ma nessuno conosce al momento le intenzioni di Mattarella – che Renzi sia rinviato alle Camere, magari dopo un giro di consultazioni e forse un incarico esplorativo (il presidente del Senato Grasso?). In Parlamento la maggioranza affermerebbe la sua esistenza perché nessuno nel Pd e fra i centristi avrebbe voglia di correre alle elezioni dopo una sconfitta. Del resto, sarebbe comunque necessario riassestare la legge elettorale. Potremmo quindi assistere alla nascita di un Renzi-bis attraverso un sostanziale rimpasto dei ministri. È chiaro che il premier sarebbe gravemente indebolito dalla sconfitta, ma non dovrebbe essere difficile per lui giustificare la nuova investitura: avrebbe evitato il “governicchio” e assicurato la stabilità. Viceversa, un ritiro unilaterale per rinchiudersi nella segreteria del partito, farebbe perdere a Renzi le leve del potere e non gli garantirebbe la sopravvivenza come leader del Pd.
In ogni caso è facile immaginare che il mandato del presidente della Repubblica non si limiterebbe alla riforma elettorale. Il Renzi-bis dovrebbe darsi come priorità, d’intesa con il Quirinale, di far dimenticare gli strascichi del referendum e restituire serenità a un paese diviso. Nonché di curare le ferite aperte con l’Europa. Se Renzi fallisse, sarebbe il programma di un governo istituzionale di fine legislatura.
Repubblica – 18 novembre 2016