Quello del Veneto è un caso unico al mondo. Adottare anche nel resto d’Italia i limiti più restrittivi per i Pfas è una scelta politica». Stefano Polesello è ricercatore dell’Istituto di Ricerca sulle Acque del Cnr e ha coordinato lo studio di valutazione del rischio ambientale e sanitario associato alla contaminazione da Pfas (sostanze perfluoro-alchiliche). E la scelta politica pare che stia per arrivare e non da Roma ma da Bruxelles.
Ieri il ministro della Sanità Beatrice Lorenzin ha infatti annunciato che a dicembre arriverà una nuova direttiva europea sollecitata dal governo italiano sui Pfas. «Non sono riuscita a comprendere il motivo di questa polemica del Veneto – ha detto ieri il ministro – È stato fatto un grandissimo lavoro, stanziati milioni e milioni e ogni Regione può adeguare o ridurre questi parametri in base alla peculiarità del territorio. Se c’è un problema, magari alzi il telefono e parli col tuo ministro». «Telefonata? Fior di lettere, abbiamo mandato. Evidentemente il ministro non legge la posta», ha rintuzzato l’assessore alla Sanità Luca Coletto.
Il problema infatti c’è, anzi sono due: la tutela delle popolazioni dei 21 Comuni la cui acqua di falda è stata contaminata e il deficit di competitività delle fabbriche della zona contaminata. Su consiglio del ministero dell’Ambiente e dell’Istituto Superiore della Sanità, la Regione ha infatti adottato per gli scarichi industriali i limiti di concentrazione che valgono per l’acqua potabile (0,03 microgrammi per litro per i Pfos e 0,5 per gli altri Pfas e la loro somma) per i cinque Pfas a catena lunga che non si degradano nell’ambiente e restano nel corpo sui quali Cnr e Iss hanno dati tossicologici ma anche per quelli a catena corta, meno pericolosi. Dal Consorzio Aziende Riunite Collettore Acque partì una raffica di 12 ricorsi al Tar con sospensiva per eccesso di potere e a gennaio il Tribunale Superiore delle Acque ha imposto una gradualità nell’applicazione.
«C’è il rischio di soccombere in giudizio senza una legge nazionale che norma anche i Pfas a catena corta», spiega l’assessore all’Ambiente Giampaolo Bottacin, rimproverando al ministero della Sanità di non voler vedere che la contaminazione da Pfas c’è anche in altre Regioni e che dunque c’è bisogno di una normativa nazionale più stringente per tutti. E cita proprio lo studio del Cnr di Polesello. «In acquedotti di una città non veneta c’erano ben 120 nanogrammi di Pfos, sostanza più pericolosa della famiglia dei Pfas per la quale qui abbiamo fissato la soglia dei 30 nanogrammi». La città è Lodi ma problemi simili i ricercatori nel 2013 li riscontrarono anche il Piemonte e Toscana. Regioni Che continuano ad avere parametri per gli scarichi più alti di quelli del Veneto; dunque le concerie di S.Croce sull’Arno hanno un vantaggio competitivo su quelle vicentine. Non significa inquinamento libero: da giugno c’è una nuova legge che impone a tutte le Regioni di fare monitoraggi nelle zone dove ci sono insediamenti industriali. Emilia, Lombardia, Piemonte, Toscana hanno già cominciato. «Lodi? Fu colpa di un incendio, la schiuma usata per spegnere contaminò uno dei tre pozzi di prelievo – spiega Polesello – Ora è risolto. Nel nostro dataset di 400 campioni abbiamo riscontrato solo rischi localizzati. Eccetto in Veneto, dove la qualità del terreno, molto permeabile, ha portato le acque di scarico fino alla falda. Un caso a livello mondiale. Bene ha fatto la Regione ad adottare limiti precauzionali. Estenderli in tutta Italia è una scelta politica».
Intanto, domani i tecnici della Regione e dell’Iss faranno il punto. «Era già in conto la revisione dei limiti dei Pfas sulla base dei riscontri delle analisi», fa sapere Luca Lucentini, direttore dell’Istituto Superiore di Sanità.
Mo.Zi. – Il Corriere del Veneto – 24 settembre 2017