La sinistra si spacca sul referendum della Cgil per abrogarlo Gli avvisi della Corte costituzionale sugli indennizzi troppo bassi
ROMA — La battaglia sul Jobs Act, rilanciata dal referendum della Cgil, sta spaccando il Pd. La segreteria Elly Schlein l’ha firmato, come altri leader d’opposizione, Giuseppe Conte, Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, lasciando ai suoi libertà di scelta. Il corpaccione dei riformisti pd è così rimasto ai margini, da Gentiloni a Delrio, che il Jobs Act non solo l’hanno votato all’epoca, da ministri del governo Renzi. Ma ne condividono le scelte profonde. A partire dall’abolizione dell’articolo 18.
Le ragioni di chi attacca e di chi difende il Jobs Act ruotano attorno a quesiti comuni: la riforma ha creato più o meno lavoro, più o meno precariato? Sono aumentati i licenziamenti, non più protetti dalla reintegra? Se stiamo solo su questi punti, abbiamo più occupati, ma anche più precari. I licenziamenti economici, resi più facili, si sono invece dimezzati: da un milione all’anno a mezzo milione. Tutto merito o colpa del Jobs Act?
Nulla di questo, dicono studi e ricerche, può attribuirsi a una o più riforme. L’occupazione si muove con l’economia, con la crescita, con la produttività. Può essere stimolata dagli incentivi, precarizzata anche. Ma poi vive quasi di vita propria, riflette le scelte delle imprese sugli investimenti, il contesto nazionale e globale. Crisi e recessioni bruciano posti. Riprese e rimbalzi li ricreano. Come stiamo vedendo nel post pandemia.
Se confrontiamo gli occupati del 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del contratto a tutele crescenti, cuore del Jobs Act, con quelli del 7 marzo 2024 sono 1,8 milioni in più. Frutto della crescita dei dipendenti stabili (1,6 milioni), dei dipendenti a termine (519 mila) e dello svuotamento degli autonomi (-334 mila). In nove anni il tasso di occupazione è salito al 62%. Record storico, ma anche uno dei più bassi d’Europa e influenzato dall’inverno demografico che assottiglia la forza lavoro. In vent’anni, dice l’Istat nel suo recente Rapporto annuale, si contano un milione di precari in più e 1,4 milioni di occupati stabili in più. I primi sono giovani under 34, i secondi solo over 50. Una tendenza che prescinde dal Jobs Act arrivato a metà di questo ventennio e che prosegue anche oggi.
Un esempio su tutti può servire. A giugno 2020, con l’Italia appena riemersa dal lockdown, gli occupati erano 22 milioni, gli stessi del marzo 2015, all’alba del Jobs Act. I precari erano 2,5 milioni contro i 2,3 milioni di cinque anni prima. Dopo sono esplosi fino a toccare il record di 3,1 milioni nell’aprile 2022. Infine scesi ancora – ora siamo a 2,8 milioni – perché l’Italia del dopo Covid è cambiata: all’inizio super precaria, in seguito stabilizzatrice. Le imprese non trovano lavoratori o impiegano molto tempo per trovarli. Quando li assumono lo fanno spesso con contratti stabili, offerti come un bonus in cambio di stipendi leggeri.
La flessibilità oggi si gioca soprattutto sui salari bassi e sul part-time forzato. Tendenze che spiegano in parte anche il fenomeno degli “expat”, giovani e meno giovani che scappano all’estero. E delle “grandi dimissioni” da 1,3 milioni di la voratori stabili all’anno. Erano un milione nel 2018-2019. Il mondo cambia.
Le imprese italiane si adeguano alle leggi, sfruttano i bonus. E certohanno cavalcato, quelle più grandi, l’abolizione dell’articolo 18, sapendo che al massimo pagano un indennizzo senza dover reintegrare, se licenziano in modo illegittimo. Su questo la Corte Costituzionale è intervenuta quattro volte, avvertendo che l’indennizzo è troppo basso.
E qui arrivano i referendum. La Cgil ritiene il Jobs Act una ferita perché spacca il mondo del lavoro tra prima e dopo il 7 marzo 2015: prima c’era la reintegra, dopo solo l’indennizzo. Una questione di diritti, quindi. Ecco perché vuole tornare all’articolo 18, sebbene nella versione della legge Fornero del 2012, già molto restrittiva in fatto di reintegra rispetto allo Statuto dei lavoratori. Anche la Cgil sa bene che l’occupazione non aumenta, se vince il referendum. Neanche però con le riforme, come il Jobs Act. Possono aiutare o frenare. Il resto lo fa l’economia.