Pubblicato dal Corriere del Veneto. Io sono sempre quella, sembra dire Ilaria Capua: ragazzina timida, che da adolescente vestiva con i jeans, i capelli corti, senza trucco; incerta in quella altezza smisurata. Insomma, come è stato possibile accusarmi di simili nefandezze?
Rovinarmi la vita.
È che c’è una crepa in ogni cosa, come diceva Leonard Cohen, ed è da lì che entra la luce. Così, quella ferita profonda, quell’interrogativo capace di divorare e di togliere il sonno, sono diventati un libro: «Io, trafficante di virus », edito da Rizzoli, che uscirà nei primi giorni di marzo (scritto con Daniele Mont d’Arpizio). Capua per altro l’aveva promesso, lasciando quest’estate l’Italia, dopo le dimissioni dal parlamento: «Spiegherò tutto, anzi lo urlerò, perché possa essere di lezione. Perché l’Italia capisca».
Ed ecco.
Forse però qui si è andati anche oltre. La difesa è diventata catarsi. Perché in queste pagine, che il Corriere del Veneto ha letto in anteprima, Ilaria Capua, scienziata, già responsabile del centro di referenza nazionale per l’influenza aviaria allo Zooprofilattico, poi parlamentare montiana, ha scelto la strada più difficile: quella di raccontarsi, dall’inizio. E di mettersi a nudo.
Sì, c’è proprio tutto in questa lunga confessione, che è un intenso flusso di coscienza. Ci sono gli amori e i dolori (il primo matrimonio con Giovanni, conosciuto sui banchi dell’università e lasciato probabilmente a causa del lavoro: lei sempre più in vista, lui…). La giovinezza e la musica: Abba, Beatles, Coldplay, volendo selezionare una virtuale playlist. Sebbene ogni cosa, alla fine, appaia funzionale a quell’incrocio buio della vita, che è il patibolo giudiziario. L’inchiesta della procura di Roma: la vergogna e il dolore.
Anche in questo caso, Capua non nasconde nulla. Svela che la valanga le è crollata addosso improvvisamente nel 2007, pochi giorni dopo il viaggio di nozze con il secondo marito, Richard, musicista scozzese sposato in una giornata di pioggia a St. Andrews: una busta verde confusa per una multa non pagata, che invece era la richiesta di proroga del termine per le indagini preliminari. Accuse pesanti: contraffazione di sigilli e associazione per delinquere finalizzata al traffico di virus per fatti risalenti al 2005.
In realtà, nei primi momenti, la questione sembrava solo un brutto sogno. Un incipit alla Kafka: «Qualcuno doveva aver calunniato Ilaria C». Racconta lei che si catapulta a Roma, dal pubblico ministero che aveva l’indagine, Giancarlo Capaldo, per spiegare. Per farsi ascoltare. E il racconto di quella mattina è forte, un passaggio da non perdere. Terso, tesissimo: lei che sale le scale della procura, in una mattinata caldissima, che si siede davanti al magistrato. Dietro di lui due carabinieri dei Nas. Le spiegazione, la bocca secca, la rigidità e il distacco del procuratore. È allora che si comprende che butta bale. E l’incubo è carsico: sprofonda e risale. Perché dopo il silenzio — nessuno più dalla procura si fa sentire —, compaiono i messaggi oscuri. Un altro fatto inedito: racconta Capua che il 12 marzo 2008 è in laboratorio e nella casella trova una busta bianca, non chiusa. Dentro un avviso, scritto a penna: i telefoni sono sotto controllo, attenta a parlare. Immaginatevi voi. E passano i giorni, sempre con quello spettro sulle spalle ad affaticare gli eventi: la nascita della figlia (non anticipiamo, ma anche questa vicenda, è raccontata con umanità e passione davvero sorprendenti), i concorsi, le malattie. Fino all’elezione in parlamento. E all’incombere dell’altra data funesta: il 3 aprile 2014 (duemilaquattordici!). Il giorno in cui l’Espresso dedica la copertina all’inchiesta di Capaldo, che fino a quel momento era rimasta «dormiente». «Capua, trafficante di virus». È il giorno che cambia definitivamente la vita alla scienziata. Da qui la storia (pubblica) sarebbe nota: le locandine dei giornali, la gogna, i grillini che chiedono a gran voce le dimissioni. Ma Capua rilegge tutto da dentro, in una versione intima: i pianti, le notti insonni, i sonniferi sempre inutili. Costringendoci a pensare. Si sa infatti come sia andata a finire: proscioglimento totale, nel 2016.
E il libro parte proprio da qui: Capua che parla tra sé mentre è sul volo che la porta in Florida, assieme alla sua gattina Potti. Il suo addio. E si capisce, per altro, che questa fuga non sia solo dalla cattiva giustizia. L’altro capitolo fondamentale dell’autobiografia infatti è quello che riguarda il lavoro: le invidie, le meschinità, gli ostacoli politici. Capua svela le tensioni e l’ostilità che covavano nei suoi confronti all’interno dello Zooprofilattico, le facce strane dei colleghi, i rallentamenti della burocrazia (emblematico il racconto dell’incontro a Roma con l’allora ministro della Salute Ferruccio Fazio, che le promette 10 milioni di euro per un nuovo laboratorio; soldi che poi non arriveranno mai). Certo, alla fine è come se il peso Capua se lo sia tolto. Ma il problema è che ora è in mano a noi.
Il Corriere del Veneto – 19 febbraio 2017