Giuseppe Salvaggiulo. Annunciato in pompa magna dal premier Matteo Renzi dopo lo scandalo del Comune di Sanremo, a quattro mesi di distanza il decreto «ammazza furbetti del cartellino» deve ancora entrare in vigore. Dopo i pesanti rilievi del Consiglio di Stato, oggi la commissione Lavoro del Senato discuterà la relazione (non meno critica) del relatore e giuslavorista Pietro Ichino. Poi il testo tornerà in Consiglio dei ministri per l’approvazione definitiva. Il governo non è obbligato a uniformarsi alle modifiche suggerite da Consiglio di Stato e Parlamento, ma difficilmente potrà ignorarle. Sia per l’autorevolezza dei «suggeritori», sia perché in caso contrario il decreto potrebbe creare più problemi di quelli risolti. Il decreto del governo allarga le ipotesi di «falsa attestazione di presenza» anche a chi agevola i fannulloni, introduce la sospensione cautelare senza stipendio entro 48 ore; accelera il procedimento disciplinare.
Prevede inoltre il pagamento di un risarcimento alla pubblica amministrazione di un danno d’immagine; stabilito dalla Corte dei Conti; applica il licenziamento e il reato di omissione di atti di ufficio al dirigente negligente nei confronti dei furbetti.
Approvato a metà gennaio dal Consiglio dei ministri, il decreto è andato all’esame del Consiglio di Stato. Il parere ha sollevato diverse perplessità.
I magistrati amministrativi hanno suggerito di cancellare la previsione del danno d’immagine e l’estensione del reato di omissione di atti d’ufficio ai dirigenti pubblici che non sanzionano i fannulloni. Il motivo è che queste norme eccedono i limiti della legge delega, dunque sarebbero censurabili in un successivo giudizio davanti alla Corte Costituzionale.
Altre osservazioni critiche del Consiglio di Stato riguardano la tecnica con cui il decreto è stato redatto. Un conto sono gli slogan («Furbetti licenziati entro 48 ore», «anzi no, licenziati entro 30 giorni»), un altro le norme giuridiche. Se scritte male, generano pasticci in fase di applicazione e ricorsi a raffica.
Quello più macroscopico riguarda i tempi del procedimento disciplinare. Come gli esperti avevano subito evidenziato, il decreto impone termini iniziali («immediatamente») e finali («entro 30 giorni») molto più rapidi, ma non cambia quelli interni al procedimento sanzionatorio. Per esempio i termini per la difesa del lavoratore, non comprimibili se si vuole rispettare la Costituzione. La conseguenza è che rispettando i termini intermedi si viola quello finale, e viceversa. In entrambi i casi, la sanzione potrebbe essere annullata da un giudice.
Un altro problema riguarda i procedimenti in corso: quali norme si applicheranno, le nuove o le vecchie?
Su tutti questi punti il Consiglio di Stato ha suggerito correzioni. Altrettanto si appresta a fare il Senato. Poi la palla tornerà al governo per il voto finale.
La Stampa – 10 maggio 2016