https://ilbolive.unipd.it/Sofia Belardinelli. La pandemia ha posto nuovamente in luce, senza alcuna pietà, le tante storture che connotano il sistema economico dell’odierna società globale. La COVID-19, infatti, è una zoonosi: una delle tante malattie infettive di origine animale che negli ultimi anni hanno infettato l’uomo, compiendo il famigerato salto di specie. In questo caso, però, la diffusione del contagio è stata rapida e incontenibile, facilitata da una serie di fattori – come, ad esempio, l’estrema rapidità dei trasporti a livello globale, che ha veicolato e accelerato la corsa del patogeno – che sono figli diretti del nostro (dissennato) modello di sviluppo.
L’origine di SARS-CoV-2 non è ancora stata accertata. Tuttavia, diversi studi indicano come probabile l’ipotesi secondo cui il “nuovo coronavirus” possa essere stato trasmesso all’uomo da una – non ancora definitivamente identificata – specie selvatica, con ogni probabilità un piccolo mammifero. E, come è noto, lo spillover si è verificato in Cina.
Sono tutte informazioni che, seppur in apparenza prive di correlazione, trovano una comune spiegazione se inserite in un quadro più ampio: la questione ambientale. Infatti, come da anni sostengono i ricercatori di tutto il mondo, una pandemia dalle caratteristiche simili a quella attuale era attesa: fattori come la deforestazione e il cambiamento della destinazione d’uso dei suoli, la frammentazione degli habitat, i cambiamenti climatici, gli allevamenti intensivi, l’urbanizzazione sono veri e propri incubatori di zoonosi e, soprattutto laddove si presentano insieme, aumentano significativamente la possibilità che si verifichi un salto di specie.
Che vi sia un legame positivo tra questi elementi e l’emergere di patogeni che possono dare origine a epidemie o pandemie è ampiamente riconosciuto; tuttavia mancava ancora, di questa evidenza, un’analisi quantitativa che dimostrasse la correlazione tra cambiamento dell’uso dei suoli e malattie zoonotiche. A colmare questo limite è uno studio pubblicato sulla rivista Nature Food, condotto da un gruppo internazionale di ricercatori guidato da Maria Cristina Rulli, docente di Idrologia al Politecnico di Milano.
Attraverso una puntuale analisi dell’impatto antropico condotta in numerosi ambienti, infatti, gli autori evidenziano come proprio le attività legate alla produzione alimentare intensiva, che causano deforestazione, perdita di habitat e cambiamento dell’uso dei terreni, siano direttamente correlate all’aumento dei contatti tra uomo e specie selvatiche, e quindi a un’accresciuta probabilità che si verifichino spillover.
Rinolophus trifoliatus, una delle specie di pipistrello più esposti al contagio da virus della specie SARSr-CoV
«La crescita della popolazione, l’urbanizzazione, l’aumento della ricchezza nei paesi a medio reddito e i relativi cambiamenti nella dieta, compresa una crescente richiesta di prodotti animali, stanno determinando un’ulteriore espansione agricola e cambiamenti nelle modalità di allevamento, spesso a spese degli ecosistemi naturali. Negli allevamenti intensivi vive un gran numero di animali – spesso immunodepressi, con bassa diversità genetica e in cattive condizioni –, che sono costantemente a stretto contatto gli uni agli altri, il che li rende vulnerabili all’emergere e al diffondersi di epidemie. Lo sconfinamento degli esseri umani negli habitat naturali della fauna selvatica, inoltre, favorisce l’interazione tra l’uomo e le specie selvatiche».
Quando gli habitat vengono fortemente disturbati, degradati o addirittura distrutti, la loro ecologia si modifica: molte specie endemiche e specializzate tendono a scomparire, mentre sopravvivono le specie animali più generaliste. Le evidenze scientifiche mostrano che, negli ambienti antropizzati, le specie portatrici di agenti patogeni sono presenti in numero maggiore rispetto ad ambienti non modificati dalla mano umana.
Tale nesso tra modificazione dell’uso dei suoli e probabilità di zoonosi è confermato dai risultati riportati nella ricerca di Nature Food. Per individuare le aree del pianeta in cui il rischio di nuovi focolai di coronavirus della specie SARSr-CoV (SARS-related CoronaVirus) è più alto, i ricercatori hanno concentrato l’attenzione su un gruppo modello: i pipistrelli detti “ferro di cavallo” (appartenenti al genere Rhinolophus, l’unico che compone la famiglia dei Rhinolophidae), che sono gli animali più spesso contagiati dagli ?- e ?-coronavirus. Poiché, tra i Sarbecovirus endemici in questi pipistrelli, quelli più simili ai SARS-CoV che infettano gli umani sono stati trovati in Cina, la ricerca si concentra sugli areali occupati dai Rhinolophidae sul territorio cinese e in altre zone del Sud-est asiatico.
All’interno dell’areale selezionato, i ricercatori hanno individuato 10.000 punti di controllo (scelti casualmente), per ognuno dei quali è stata effettuata una valutazione dell’impatto antropico entro un raggio di 30 km, valutando il numero di animali allevati, la presenza di foreste integre oppure la frammentazione dell’habitat, la densità abitativa, l’estensione di terreni coltivati e il tasso di urbanizzazione. La Cina è risultata un hotspot in relazione ad ognuno di questi fattori: «Questi risultati – affermano gli autori nello studio – mostrano come la Cina presenti, rispetto ad altre regioni, una maggiore penetrazione umana, una maggiore densità di bestiame e un più alto tasso di perturbazione degli ambienti forestali nelle aree di distribuzione dei pipistrelli “ferro di cavallo” che sono serbatoio di SARSr-CoV».
Un approccio “One Health” è essenziale per affrontare le future zoonosi.
Seppur sia chiaro che differenti patogeni potrebbero rispondere in modi diversi agli stessi stimoli ambientali, dai dati raccolti nel corso della ricerca sembra emergere con evidenza che, in linea generale, i rapidi mutamenti ambientali causati dalle attività umane siano un fattore di rischio che non può essere ignorato.
In Cina, in particolare, l’espansione dei centri abitati e l’aumento degli allevamenti intensivi – fenomeni dovuti ai grandi cambiamenti sociali che l’industrializzazione sta portando con sé – hanno aumentato drammaticamente le possibilità di contatto tra umani e animali selvatici, e di conseguenza una crescente probabilità di emergenza di nuove epidemie. «I risultati della [nostra] analisi – spiegano gli studiosi – non provano l’esistenza di una relazione causale tra queste modalità di sfruttamento del territorio e la trasmissione di virus agli esseri umani, ma evidenziano come vi sia una chiara interdipendenza tra i diversi fattori di rischio, proprio negli areali in cui sono stati individuati i pipistrelli “ferro di cavallo”. Nonostante la distribuzione di questi pipistrelli potrà modificarsi, nei prossimi anni, in risposta al cambiamento climatico, i pattern identificati da questo studio potranno essere ancora utilizzati per indagare il nesso tra l’emergere di nuovi coronavirus e la modificazione d’uso dei suoli».
L’unico modo per arginare il rischio di nuovi spillover – e dunque di nuove emergenze sanitarie, regionali o globali – è la prevenzione: bisogna tutelare la resilienza degli ecosistemi evitando di degradarli, tutelando gli habitat e, in tal modo, facendo sì che le specie selvatiche non siano costrette a spostarsi, rischiando di entrare a contatto con gli esseri umani o con gli animali domestici, che a loro volta possono fungere da tramite nella trasmissione di patogeni. Laddove, invece, il danno è già in atto, bisogna agire per ripristinare quanto più possibile la diversità degli habitat, ad esempio attraverso la riforestazione e il rewilding.
Più di ogni altra cosa, tuttavia, bisogna ripensare alla radice l’attuale modello di sviluppo, che sta mostrando, una volta di più, la propria inadeguatezza. Ridurre, in numero e in densità, gli allevamenti intensivi, evitare che i centri urbani si estendano fino alle soglie degli habitat naturali, limitare i contatti dell’uomo con la fauna selvatica (evitando, ad esempio, il bracconaggio e il commercio internazionale e locale di specie selvatiche) sono tutte misure che vanno implementate con urgenza, perché per tutelare la salute umana è essenziale fare in modo che l’ambiente in cui l’uomo stesso vive, e del quale non è che una parte, sia resiliente, salubre e soprattutto sano.