Quindici anni fa la Camera stipulò senza gara una serie di contratti con la società Milano 90, che metteva a disposizione di Montecitorio quattro immobili
«L’articolo 2-bis del decreto legge 15 ottobre 2013, n. 120, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 dicembre 2013, n. 137, è soppresso». Chi ancora ha il coraggio di sostenere che il nostro sistema legislativo è lento e macchinoso si dovrà ricredere davanti a questo capolavoro di Palazzo Madama. Dove è stata cancellata al volo una norma che lo stesso Senato aveva approvato sorprendentemente soltanto sei giorni prima. La cosa era passata nel silenzio generale fra le pieghe di un provvedimento battezzato «manovrina», grazie a un emendamento presentato alla Camera dal deputato del Movimento 5 Stelle Massimo Fraccaro. Testuale: «Le amministrazioni dello Stato, le Regioni e gli enti locali, nonché gli organi costituzionali nell’ambito della propria autonomia, hanno facoltà di recedere, entro il 31 dicembre 2014, dai contratti di locazione di immobili in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Il termine di preavviso per l’esercizio del diritto di recesso è stabilito in trenta giorni, anche in deroga a eventuali clausole difformi previste dal contratto».
Una bomba. Con un bersaglio preciso, come dimostra il passaggio sugli «organi costituzionali»: i palazzi Marini, quegli stabili che ospitano gli uffici dei deputati, presi in affitto con il meccanismo del «global service» dall’immobiliarista e grande allevatore di cavalli Sergio Scarpellini, munifico elargitore di contributi liberali ai partiti di destra e sinistra. È un’operazione che ha origine alla fine degli anni Novanta quando la Camera, d’accordo centrosinistra e centrodestra, decise di stipulare senza gara una serie di contratti con la società Milano 90, che metteva a disposizione di Montecitorio quattro immobili e relativi servizi. A un prezzo, oltre 500 euro annui al metro quadrato, tale da ripagare abbondantemente i mutui bancari contratti dal privato per acquistare le mura. Fatto sta che la Camera avrebbe speso in 18 anni ben 444 milioni solo per i canoni d’affitto, senza ritrovarsi in tasca un solo mattone. Una vicenda divenuta ben presto l’emblema degli sprechi del Palazzo, contro cui si erano scagliati a ripetizione con interrogazioni e denunce pubbliche i radicali. Ma inutilmente. Come inutili si erano rivelati i mal di pancia avvertiti da molti parlamentari consapevoli dell’abnormità della storia. A tutti era stato risposto che non c’era niente da fare: i contratti andavano rispettati e amen. Dopo molti sforzi si era riusciti a disdettarne almeno uno.
E l’emendamento Fraccaro, divenuto legge il 13 dicembre scorso a Palazzo Madama con l’approvazione senza modifiche della «manovrina» uscita da Montecitorio, avrebbe fatto cadere tutti gli ostacoli per la rescissione degli altri tre, che pesano sulle casse pubbliche 26 milioni per i soli canoni. Se però il giovedì seguente non fosse stato recapitato in Senato nella leggina di conversione di un decreto sulle «misure finanziarie urgenti in favore di regioni ed enti locali», un provvidenziale emendamento che sopprime quella disposizione passata sempre al Senato il venerdì precedente. Modifica prontamente approvata dalla maggioranza senza battere ciglio: con qualche voto in più, sembra, rispetto a quelli prevedibili. La battaglia si sposta adesso alla Camera, dove Fraccaro riproporrà tale e quale la norma bocciata. Ma intanto il segnale arrivato dalle Larghe intese, per paradosso proprio mentre Matteo Renzi, il nuovo segretario del Pd loro principale azionista dichiara pubblicamente guerra ai costi della politica, si può interpretare in modo inequivocabile: gli affitti dei palazzi del potere non si toccano. Altra motivazione non ci sarebbe. E l’impronta digitale della maggioranza, del resto, è facilmente riconoscibile.
L’emendamento porta la firma della relatrice del provvedimento, circostanza che qualifica l’emendamento come iniziativa non personale. Ma essendo la senatrice del Pd Magda Zanoni esperta di contabilità statale, visto che il suo curriculum la qualifica come «consulente di bilanci pubblici», certo non ne può ignorare le conseguenze. E cioè che oltre a mettere in pericolo i contratti blindati e dorati dei palazzi Marini, quella perfida norma grillina consentirebbe a molte amministrazioni di liberarsi di onerosi contratti incautamente sottoscritti senza clausola di recesso: è appena il caso di ricordare che spendiamo circa 12 miliardi l’anno per gli affitti degli uffici pubblici. Chissà perché nessuno ci aveva pensato prima.
Il Corriere della Sera – 21 dicembre 2013