Il medico in rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato non esclusivo, che durante il periodo di assenza per malattia presti attività libero-professionale presso una casa di cura privata, sia pure per un breve arco temporale e in misura limitata, senza avere prima offerto la prestazione lavorativa all’Amministrazione datrice di lavoro, viene meno ai canoni di correttezza e buona fede.
Elementi che nel rapporto di lavoro devono connotare le reciproche obbligazioni delle parti, anche al fine del buon andamento dell’Amministrazione. Tale condotta è di per sé suscettibile di rilievo disciplinare. L’obbligo di fedeltà ha un contenuto più ampio di quello risultante dall’articolo 2105 del codice civile (il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore) integrandosi detta norma con gli artìcoli 1175 e 1375 del codice civile, che impongono correttezza, lealtà e buona fede, anche nei comportamenti extralavorativi, sicché il lavoratore è tenuto ad astenersi da qualsiasi condotta che risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto.
Ciò, tenuto conto, altresì, delle condizioni poste dal legislatore all’esercizio dell’attività extramoenia, ai sensi dell’articolo 15-sexies (aggiunto dal Dlgs 19 giugno 1999, n. 229, articolo 13). del Dlgs 502/1992, che prevede come l’opzione per l’esercizio della libera professione extramuraria, «comporta la totale disponibilità nell’ambito dell’impegno di servizio, per la realizzazione dei risultati programmati».
Questa è la massima contenuta nella sentenza della Corte di cassazione civile, sezione Lavoro, n. 19933, depositata il 5 ottobre. Nello specifico, la Cassazione ha accolto con rinvio per nuova valutazione, il ricorso della struttura sanitaria contro la sentenza della Corte d’appello di Bologna che aveva ribaltato quella del Tribunale di Bologna, ove era stato ritenuto scorretto il provvedimento espulsivo e lo aveva reintegrato nelle mansioni ritenendo la violazione di poca importanza. Posizione decisamente respinta dalla Cassazione secondo la quale, nella fattispecie, non viene in rilievo la compatibilita del lavoro svolto presso terzi con l’infermità denunciata, e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psicofisiche, ma la mancata comunicazione, in ragione degli obblighi di fedeltà, buona fede e correttezza che gravano sul lavoratore, tenuto conto, altresi che si è in presenza di un rapporto di lavoro pubblico privatizzato. alla datrice di lavoro del ripristino della capacità lavorativa e l’eventuale possibilità di quest’ultima di impiegare il lavoratore in attività meno impegnative in ragione delle condizioni fisiche e/o rifiutarne la prestazione. Tali previsioni, afferma la Corte, ron possono essere disattese per lo svolgimento di attività extramoenia neppure durante il periodo di malattia.
Paola Ferrari avvocato – Il Sole 24 Ore sanità – 18 ottobre 2016