La strada che porta alla produzione italiana del vaccino anti Covid rischia di essere lunga e piena di problemi tecnici e giuridici. Eppure vale la pena percorrerla. L’Unione europea ha chiesto al governo di provarci e sabato scorso il presidente del Consiglio Mario Draghi ha incaricato il ministro per lo Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti di sondare il terreno con l’industria per capire quali margini ci sono per realizzare nel nostro Paese i vaccini già autorizzati, quelli di Pfizer, Moderna e AstraZeneca. Il ministro alla Salute Roberto Speranza, anche lui incaricato di seguire l’operazione come il ministro dell’Economia Daniele Franco, aveva già chiesto al commissario straordinario per l’emergenza Domenico Arcuri di cercare stabilimenti produttivi nel nostro Paese. E anche l’Aifa, l’Agenzia del farmaco, si era mossa nelle scorse settimane nello stesso senso.
Prima di tutto bisogna chiarire due aspetti. Sarà l’Europa ad occuparsi della questione brevetti, cioè di contrattare con le aziende farmaceutiche la cessione della licenza, che dovrebbe avvenire dietro compenso e probabilmente avrà una durata limitata nel tempo. Altro aspetto non chiaro a tutti, ad esempio al leader della Lega Matteo Salvini che ieri ha parlato di «sovranità vaccinale italiana», è che le dosi che eventualmente saranno prodotte qui non resteranno in Italia. In base agli accordi europei verranno infatti redistribuite in tutto il continente e a noi ne spetterà il 13,6% del totale, cioè la nostra quota delle forniture fissata ai tempi dei primi contratti con l’industria e basata sul numero degli abitanti.
La questione più delicata però non riguarda brevetti e spartizioni di dosi ma la capacità di produrre. Giovedì il presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi sarà da Giorgetti dove, annuncia, «sarà fatto il punto. Diremo al ministro come si produce un vaccino e con quali tempi: si tratta di un prodotto vivo, non di sintesi, va trattato in modo particolare. Serve una macchina che si chiama bioreattore, non è che si schiaccia un bottone ed esce la fiala. Da quando si inizia una produzione passano 4-6 mesi». E Scaccabarozzi aggiunge: «Stiamo facendo una ricognizione per capire se in Italia sono già presenti aziende in grado di aiutare nella produzione dei vaccini e in quali fasi». Il punto è che nel nostro Paese, e il presidente di Farmindustria lo sa, ci sono due multinazionali importanti ma si occupano solo di alcune fasi di produzione, l’infialamento e il confezionamento. Hanno sede nel Lazio, in provincia di Frosinone, e si chiamano Thermo Fisher e Catalent (che sta già infialando i vaccini per AstraZeneca e sarebbe sul punto di chiudere anche con Pfizer e Johnson&Johnson). Quello che scarseggia sono i bioreattori. «In Italia abbiamo un solo sito di ricerca, sviluppo e produzione dei vaccini. Quello di Gsk a Siena — spiega Riccardo Palmisano, presidente di Assobiotec — I loro vaccini però sono di tipo tradizionale, non fanno cioè quelli con Rna messaggero». Al momento, quindi, i medicinali che usano quella tecnologia, quelli di Pfizer e Moderna, non possono essere prodotti in Italia. «Certo, ci si può attrezzare ma i tempi sono molto lunghi — dice Palmisano — In prospettiva comunque ritengo sia giusto investire per avere i bioreattori». In realtà un macchinario del genere lo ha anche Reithera, che però sta lavorando a un suo vaccino. «Quell’azienda è una delle importanti realtà di Castel Romano, insieme a Irbm e Takis, che però fanno principalmente ricerca».
In Italia lavora uno dei più importanti scienziati dei vaccini del mondo, Rino Rappuoli di Gsk. Anche lui è chiaro sulla situazione. «Nella produzione ci sono due fasi — spiega — la prima riguarda la creazione della sostanza: cioè l’Rna, la proteina, il virus dello scimpanzè, a seconda dei vaccini. Per produrre ci vogliono i bioreattori ma in Italia non ci sono gli impianti. Solo Gsk li ha, ma non per il vaccino anti-Covid, bensì per il vaccino contro la meningite che è batterico». I tempi di riconversione sarebbero lunghi e comunque la casa farmaceutica dovrebbe interrompere la produzione del suo vaccino contro la meningite. «Tutto ciò però non vuol dire che non si possa pensare di metter su in Italia degli impianti con bioreattori: bisogna solo tenere conto che i tempi non sarebbero brevi».