Paola Italiano. Forse, molti sindaci e dirigenti scolastici confidavano nel fatto che la sentenza di Torino passasse sotto traccia. Che il riconoscimento del diritto a consumare a scuola il pasto da casa rimanesse un affare circoscritto a quelle 58 famiglie che avevano fatto causa. O che, comunque, non provocasse l’effetto domino che invece ha provocato anche oltre i confini piemontesi.
Altrimenti non si spiega il ritardo – la sentenza è di giugno – con cui oggi, a lezioni ampiamente iniziate, si fronteggia il caos del proliferare di dinieghi, proteste, indicazioni contraddittorie, circolari e pareri in decine di città italiane, dopo la pioggia di richieste di disdette al servizio mensa. Un panorama così frammentato e confuso che, ora, si è mossa l’Anci, per chiedere ai ministeri dell’Istruzione e della Salute indicazioni e linee guida su come si devono comportare i Comuni italiani.
Una disfida lunga anni
L’emergenza attuale nasce dall’inerzia di fronte a un problema che, ancora prima che nelle aule di giustizia, era già finito a più riprese sul tavolo di Comuni, presidi e Asl. Almeno da tre anni le proteste contro le tariffe troppo care delle mense e le lamentele sulla qualità del servizio si sono fatte via via più forti, più organizzate. È successo a macchia di leopardo, da Pomezia a Lucca, da Brescia a Genova, da Potenza a Napoli. Ai reclami, si accompagnava spesso l’ultima spiaggia della richiesta del pasto da casa: se non si possono abbassare le tariffe, se la qualità del cibo non ci soddisfa, lasciate almeno che siamo noi genitori a preparare il pasto ai nostri figli.
Motivi igienici?
I no sono sempre stati categorici sulla base di due motivi. Quello ideologico, l’assunto per il quale la mensa è una conquista sociale e un momento educativo; e quelli igienico-sanitari: non si possono introdurre a scuola cibi diversi da quelli del servizio di ristorazione. Perché quelli, dicono i Comuni e le scuole, sono controllati. E poi, ci sarebbe il rischio «contaminazione»: che succede se il bambino allergico che mangia in mensa (che ha il suo pasto diversificato) assaggia il cibo preparato a casa dalla mamma del suo compagno? Queste sono le uniche obiezioni rimaste in piedi, perché ogni argomento ideologico è stato spazzato via dalla sentenza emessa in nome del popolo italiano. «Popolo italiano», non cittadini piemontesi o torinesi, né genitori che hanno fatto ricorso, come il Miur ha cercato di sostenere a luglio, e come hanno affermato in questi giorni vari dirigenti scolastici. Come ha detto addirittura il Comune di Milano in una circolare alle scuole, salvo fare marcia indietro dopo il caso della bimba allontanata dalla mensa perché aveva il panino da casa.
No a discriminazioni
I giudici, in realtà, hanno risposto anche sulle questioni sanitarie. E pare un ovvietà: la ditta di ristorazione è responsabile di quello che serve, i genitori sono responsabili del cibo che cucinano; e gli insegnanti e il personale della scuola devono vigilare, come peraltro già fanno. L’importante è che non ci siano discriminazioni e che si mangi tutti insieme: magari a tavoli separati, ma non è tollerabile un apartheid degli alunni col panino.
A Torino, dove la consapevolezza dei genitori del diritto ottenuto con la sentenza è più forte, nella maggior parte delle scuole i dirigenti se ne sono fatti una ragione: la mensa mista è già realtà, in tavoli separati ma nello stesso refettorio, dopo aver fatto firmare ai genitori uno scarico di responsabilità. Ma casi come quello milanese della bimba allontanata, non sono isolati: è successo anche in Friuli. In generale, si va da divieti assoluti che continuano a essere opposti ai genitori, ad aperture con convocazione di incontri per capire come organizzarsi. Quello che non è discutibile è il diritto a scegliere il pasto da casa: i genitori lo possono rivendicare subito, aspettare che la scuola si organizzi è una gentile concessione, e a Torino c’è una squadra di penalisti pronti a intervenire contro le resistenze più strenue. Perchè «in Italia il cibo è una cosa seria» come ha detto la Bbc dovendo spiegare agli inglesi perché il «packed lunch» che per loro è quotidianità, qui finisce sulle prime pagine dei giornali.
“Macché eroe della schiscetta: ho solo dato voce alle famiglie”
L’avvocato che difende il diritto al pasto da casa: le istituzioni sono lontane dalla realtà, ignorano il disagio
«Non sono un capopopolo alla testa di genitori rivoltosi: sono solo un avvocato che cerca di fare onestamente il suo lavoro». Giorgio Vecchione rifiuta qualsiasi etichetta da «eroe del panino», ma è innegabile che le sue vittorie in aula lo abbiano reso protagonista di una rivoluzione nelle scuole italiane che va ben oltre la battaglia dei genitori torinesi. E punto di riferimento anche per le altre famiglie in Italia che ora rivendicano il diritto al pasto da casa: tanto che è sempre lui, con il fratello Riccardo, ad assistere alcuni clienti milanesi che hanno fatto ricorso in tribunale.
Avvocato, le amministrazioni stanno chiedendo tempo e invocano il dialogo, voi perché andate avanti con le azioni legali?
«Noi siamo dispostissimi a concedere alle scuole il tempo di organizzarsi, e quando dico noi parlo di molti dei genitori che assisto; ma quale dialogo? Le istituzioni sono muri di gomma: la prima causa, nel 2013, nasce dalla sordità a ogni richiesta contro le tariffe troppo care; e, dopo la sentenza di giugno, come controparte, siamo stati invitati una volta a luglio a un confronto. Alle nostre domande non davano risposte, da allora invocano il dialogo e non ci hanno più convocato, nè hanno risposto ad alcuna delle comunicazioni che ho inviato a Comune e ministero. E sta dando indicazioni chiare: è per questo che molti si rivolgono a noi».
Ricevete molte richieste?
«Da settembre, la questione ci sta occupando giornate intere, si tratta soprattutto di consulenza a chi fuori da Torino non sa come deve comportarsi se vuole dare disdetta alla mensa, come deve rispondere ai no categorici e alle obiezioni sanitarie».
Ora si è mossa anche l’Anci, ma chi può risolvere la situazione?
«La cosa più grave è che i Comuni, dall’essere meri gestori di un servizio facoltativo, si siano proclamati capi supremi nelle decisioni da prendere».
Quindi dovrebbe intervenire il Miur?
«Sì, certo, ma io ho sentito responsabili del Miur parlare soltanto a tv o giornali. I veri soggetti che ora sono tra l’incudine e il martello sono i dirigenti scolastici, lasciati soli a decidere senza indicazioni. Ma la cosa veramente deprecabile è un’altra».
Quale?
«Che in tante resistenze di natura ideologica, nessuno nelle istituzioni si stia ponendo il problema del perché sta succedendo tutto questo, perché sono sommersi di disdette dalle mense. Perchè un genitore si sottrae al pagamento e preferisce il pasto da casa? Perchè non si indaga sulle vere situazioni di disagio delle famiglie? Stanno difendendo un sistema che ormai è alla fine, senza chiedersi i motivi veri per cui questo succede».
La Stampa – 26 settembre 2016