Sembrava solo una storia di malasanità, ma stavolta è un drammatico contesto di povertà, ignoranza ed emarginazione ad avere impedito a una ragazza di 18 anni di curare un mal di denti, evitare l’ascesso, le complicazioni, l’infezione ai polmoni, un calvario sfociato nel coma e nella fine di un’esistenza spenta in rianimazione, senza che una decina di medici in due ospedali siano riusciti a salvarla.
La vittima di quest’altra macchia palermitana è Gaetana Priola, Tanina, alta e magra, una tristezza specchiata nei suoi occhi, nata e malamente cresciuta a Brancaccio, nel quartiere che Padre Pino Puglisi voleva salvare e dove la mafia assoldò un killer anche per farla finita con il suo Centro Padrenostro. Lo stesso Centro che invece resiste e dove Tanina aveva trovato rifugio con uno dei suoi tre fratelli, tutti angosciati due anni fa quando il padre, Franco Priolo, abbandonò la moglie, Mamma Nunzia, da quel momento su è giù per i palazzi a lavare scale.
Ma Tanina, senza soldi per libri o piccole cose, aveva già interrotto gli studi e solo i volontari del Centro le consentirono di prendere la licenza media col doposcuola a 17 anni, quando tante sue coetanee avevano già un figlio, protagoniste di «fuitine», finte fughe d’amore utili per riparare, come se tutto fosse fermo ai tempi di Danilo Dolci. E sembra ferma a un vecchio dagherrotipo l’immagine di un quartiere dove ieri sera per il corpo di Tanina non si poteva nemmeno allestire una camera ardente nella sua modestissima casa di via Hazon perché ci abita pure uno zio agli arresti domiciliari. Poi, a tarda sera, altro dolore: la Procura apre un’inchiesta, dispone l’autopsia e il trasferimento della salma in obitorio.
In questo disastro dove i ragazzotti spacciano, parenti e amici s’arrangiano, Tanina di quel malanno, senza soldi per il dentista, avrebbe potuto parlarne con Mariangela D’Aleo, una delle operatrici del Centro che l’aveva seguita negli studi, ovvero con il presidente, Maurizio Artale, un allievo di don Puglisi, ma non si faceva più vedere da quasi due mesi. E forse ha preferito evitare di tornare per un bisogno. Fatto sta che il 19 gennaio sviene per il dolore e in ospedale, al Buccheri La Ferla, le dicono di imbottirsi di antibiotici e di andare al Policlinico. Se abbia seguito la terapia è cosa dubbia. Unico dato certo è che al Policlinico non va, mentre sei giorni fa arriva al Civico dove si aggrava ed entra in rianimazione con un versamento pleurico senza più uscirne.
Tanta rabbia al Centro, come spiega Artale: «Ce l’avesse detto, avremmo mobilitato per lei i nostri medici volontari. Ecco la prova che padre Puglisi ci vedeva giusto. Voleva un Poliambulatorio per Brancaccio. Ma non quelli con orario d’ufficio. Aperti fino a mezzanotte con tanti volontari. E invece in questa città si parla e non si fa niente».
Hanno pure fatto una loro approssimativa statistica al Centro scoprendo che fra i ragazzi di Brancaccio la metà ha i denti guasti. Per la cattiva alimentazione, sospettano. Ovvero perché pullulano spacciatori e droghe leggere pure alle medie. Ma non è certo il caso di Tanina, quasi indifesa, meno donna delle sue coetanee. Se la ricorda Artale la ragazza snella, le lenti grandi e chiare, i capelli lunghi: «Sì, studiava, ma le piaceva di più giocare, allenarsi al computer. Poi sparì, a differenza del fratello Alessandro, un terremoto, un operatore solo per lui».
Conversazione interrotta da un ragazzo con una guancia gonfia e dolente. «Un malanno simile a quello di Tanina», sospetta Artale attaccandosi al telefono per chiamare un medico, mentre arriva un uomo che invoca aiuto. «Mi hanno dato un “definitivo” di 13 mesi, ma il giudice dice che se mi prendi in affido non vado in carcere…». E Artale annuisce, facendo le condoglianze perché è un altro zio di Tanina. Scene ordinarie di un Bronx a lutto anche quando non si spara.
Felice Cavallaro – Corriere della Sera – 11 febbraio 2014